sabato 20 febbraio 2010

Mail "merito" è di destra o di sinistra?

Un dossier proposto da Jaime Amaducci, Cidi di Cesena-Cesenatico (FC)

"Cos'è la democrazia? Una questione procedurale: tutti partecipano e le decisioni sono prese a maggioranza"; "il politico di sinistra: colui che è attirato dall'ideale - libertà, uguaglianza e benessere… - colui che ha dato avvio all'affermazione di una democrazia sostanziale, in cui il principio del merito deve trovare un equilibrio con quello del bisogno".
Norberto Bobbio
(dal Discorso del 1992 per il Millenario di Rivalta Bormida

http://www.lancora.com/monografie/persone/bobbio_0503.html )
[…] la distinzione fra la destra e la sinistra, per la quale l’ideale dell’eguaglianza è sempre stato la stella polare cui ha guardato e continua a guardare, è nettissima. Basta spostare lo sguardo dalla questione sociale all’interno dei singoli stati, da cui nacque la sinistra nel secolo scorso, alla questione sociale internazionale, per rendersi conto che la sinistra non solo non ha compiuto il proprio cammino ma lo ha appena cominciato.

Norberto Bobbio,
“Destra e sinistra”, Donzelli, Roma, 1995, pag. 128


Il sindacato tra conservazione e cambiamento
(Forum P.A. - 22 maggio 2007)
http://www.forumpa.it/forumpa2007/convegni/relazioni/321_bernardo_giorgio_mattarella/321_bernardo_giorgio_mattarella.htm

IL PRINCIPIO DEL MERITO IN TEORIA E IN PRATICA
di Bernardo Giorgio Mattarella
Ordinario di Diritto Amministrativo - Università degli Studi di Siena

Il mio compito è di parlare del principio del merito e anche di dare brevemente conto di una recente proposta di legge elaborata da Pietro Ichino e da me, che ha avuto un certo seguito parlamentare. Prima di parlare di questa proposta, vorrei inquadrare il tema del principio del merito come principio ordinatore dell’accesso al pubblico impiego e della progressione in carriera nel settore pubblico.
Come è stato recentemente ricordato da Sabino Cassese, il principio del merito ha origini molto nobili e tradizioni gloriose. Esso è nato in parte in Cina e in parte in alcuni paesi europei (Svezia, Prussia, Austria) tra il Settecento e l’Ottocento, si è diffuso poi grazie agli ideali illuministi in altri paesi europei e anche in Italia. Esso ha anche un affioramento costituzionale nell’articolo 97, che stabilisce che ai pubblici impieghi si accede per concorso.
Il principio del merito, però, è più di questo. Esso significa quanto meno altre due cose: che non solo l’accesso al pubblico impiego deve avvenire per concorso, ma che anche la progressione di carriera deve avvenire in base al merito; e che il posto di lavoro deve avere una certa stabilità.
Il principio del merito ha però anche grandi nemici e forti oppositori. Questo è dimostrato, per esempio, dal Memorandum sul lavoro pubblico, nel quale si ribadisce che il modo ordinario per l’accesso al pubblico impiego è il concorso. Questo è già scritto nella Costituzione, non dovrebbe essere una questione negoziabile: se si negozia su qualcosa che dovrebbe essere pacifico, che è imposto dalla Costituzione, vuol dire che c’è bisogno di difendere il principio in questione. Vorrei dunque individuare quali sono i nemici - o gli apparenti nemici - del principio del merito, individuare quali sono i suoi alleati e, sulla base di questo, illustrare la proposta di legge di cui parlavo.
I nemici del principio del merito, o i suoi apparenti nemici, sono principalmente tre: il principio democratico, il principio corporativo e il principio di eguaglianza. Come si vede non sono cattivi soggetti: sono principi altrettanto importanti e nobili e con un radicamento costituzionale forse anche maggiore rispetto al principio del merito. Perché, tuttavia, sono nemici del principio del merito o possono diventarlo?
Che il principio democratico possa entrare in tensione con il principio del merito è dimostrato ad esempio da un recente articolo di Bruce Ackerman, uno dei maggiori costituzionalisti americani. L’articolo ha un titolo significativo (Meritocrazia contro Democrazia) e fa riferimento alle riforme costituzionali del Regno Unito: Paese nel quale, con il modello Westminster, il principio democratico ha avuto la massima esplicazione, in quanto ogni potere viene ricondotto al circuito politico e al Parlamento. Nel Regno Unito, però, il principio democratico ha recentemente subito attenuazioni con l’istituzione di organi indipendenti meritocratici quali la Banca Centrale, la Corte Suprema e così via. In questo articolo Ackerman, che è un esperto di diritti umani, dice che la tutela dei diritti umani è meglio assicurata da un regime in cui la democrazia è temperata dalla meritocrazia piuttosto che da un regime in cui il principio elettivo ha la sua massima esplicazione. Quando si esaspera il principio elettivo, dunque, il principio democratico diventa nemico del principio del merito. La democrazia non è solo elezioni. Quando il principio democratico si esaurisce nel fenomeno elettivo, esso diventa un nemico del principio del merito.
Questo noi lo vediamo anche nella Costituzione, perché abbiamo sia l’articolo 95 sulla responsabilità ministeriale, che sancisce il fatto che i Ministri rispondano degli atti delle relative amministrazioni e, quindi, le controllino (che di fatto è una proiezione del principio democratico); sia l’articolo 97, sul principio di imparzialità, e l’articolo 98, che dice che i pubblici dipendenti sono al servizio esclusivo della Nazione, ovvero dei cittadini e non dei politici. Quindi sembra esservi tensione fra il principio di imparzialità, legato a quello del merito, e il principio democratico. In realtà, se intendiamo la democrazia in senso un po’ più ampio, come sovranità controllata e regolata del corpo elettorale, il contrasto svanisce e il principio del merito va pienamente d’accordo con il principio democratico. Anzi, il principio del merito consente un accesso dei cittadini alle cariche pubbliche in modo paritario ed è quindi, a sua volta, un sostegno alla democrazia.
Passiamo al secondo oppositore: il principio corporativo. Spesso noi intendiamo con un’accezione negativa l’espressione corporativismo. Però, in realtà, quella corporativa è un’idea nobile: essa ha a che fare non tanto con le corporazioni medievali, ma piuttosto con la dottrina sociale della Chiesa e con certe correnti dell’illuminismo. Ha però dato luogo anche a realizzazioni storiche ignobili, come l’ordinamento corporativo fascista di cui parlava poc’anzi il Professor De Rita e come il simile modello portoghese. La nobile idea della conciliazione tra interessi contrapposti, che è l’anima dell’idea corporativa, è infatti difficile da tradurre in pratica, rispetto alla semplicità del principio elettivo della democrazia rappresentativa. Il principio corporativo può essere un nemico del principio del merito perché esso implica la negoziazione, il confronto tra interessi contrapposti mentre il principio del merito a volte non vuole la negoziazione, il mettersi d’accordo e la rappresentanza di interessi. Il principio del merito, come nel caso dei concorsi pubblici, richiede piuttosto una valutazione oggettiva.
Il terzo nemico del principio del merito sembra essere il principio di eguaglianza. Anche questo, in realtà, è un nemico apparente: il principio del concorso, infatti, si fonda precisamente sul concetto di eguaglianza, in quanto richiede la parità di accesso alle cariche pubbliche. Tuttavia, se il principio di eguaglianza diventa egualitarismo, il principio del merito viene sacrificato. Se tutti possono accedere alle cariche pubbliche indipendentemente dai loro meriti, senza una valutazione, allora sorge il contrasto tra i due principi.
Il contrasto con ciascuna delle deviazioni di questi apparenti oppositori lo abbiamo potuto verificare negli ultimi tempi. Per quanto riguarda il contrasto tra il principio democratico e il principio del merito, il riferimento più evidente è quello alla vicenda della dirigenza e dello spoils system. Abbiamo infatti avuto meccanismi di spoils system che sono chiaramente riconducibili all’invadenza del principio democratico o elettivo; l’esigenza di imparzialità ha anche recentemente indotto la Corte costituzionale a limitare questa ingerenza. In realtà, lo spoils system non è presente soltanto nella vicenda della dirigenza, ma è a volte nascosto nelle leggi finanziarie e in altre leggi. Quando si sopprime un organismo per poi ricostituirlo quasi subito uguale, infatti, normalmente questa operazione serve a liberarsi di quelli che in quel momento occupavano quell’organismo.
Il contrasto tra il principio del merito ed il principio corporativo emerge invece tutte le volte che si negozia su qualcosa che non dovrebbe essere negoziabile. Ciò avviene, per esempio, tutte le volte che la contrattazione collettiva invade il terreno che dovrebbe essere riservato alla legge o alle determinazioni unilaterali dell’amministrazione. Anche nel Memorandum che ho menzionato prima la contrattazione collettiva invade il terreno delle direttive, che dovrebbe invece essere lasciato all’amministrazione. Questo contrasto emergeva quando delle commissioni di concorso facevano parte rappresentanti sindacali e, quindi, venivano rappresentati gli interessi invece di valutare i meriti; esso continua ad emergere quando i bandi dei concorsi vengono fatti sulla base di accordi collettivi e vengono di fatto negoziati.
Un esempio del contrasto tra il principio del merito ed il principio di eguaglianza, poi, si ha con la vicenda della stabilizzazione dei precari. In questo ampio calderone vengono infatti messe insieme situazioni molto diverse: sia vincitori di concorso, che indubbiamente meritano di prendere servizio, che soggetti che non sono mai stati reclutati con un concorso, ma sulla base di affiliazione politica. In questo ultimo caso la stabilizzazione aggiunge ingiustizia ad ingiustizia, perché coloro che non hanno potuto accedere ai pubblici impieghi continuano a rimanerne fuori in quanto i posti vengono riservati a coloro che sono stati reclutati in quell’altro modo. L’egualitarismo si pone in contrasto con il principio del merito anche in altre ipotesi: per esempio, quando le indennità di risultato vengono distribuite a tutti, “a pioggia”, e non soltanto ai più meritevoli.
Come si vede, gli oppositori del principio di merito sono le distorsioni di alcuni principi costituzionali. Per fortuna, però, ci sono anche gli alleati. In primo luogo, il principio della valutazione dei risultati. Esso è, in realtà, il nucleo essenziale del principio del concorso, che è nella Costituzione; ma il principio di valutazione dovrebbe informare di sé anche lo svolgimento delle carriere dei dipendenti pubblici e, quindi, dovrebbe essere utilizzato anche ai fini degli avanzamenti, delle retribuzioni e così via. Il principio della valutazione dei rendimenti si basa naturalmente sul principio costituzionale del buon andamento ed è per qualche aspetto rafforzato dalla privatizzazione del lavoro pubblico. La privatizzazione, infatti, opera in modi diversi rispetto al principio del merito: in questo caso lo rafforza, perché il ricorso alla valutazione, come strumento di gestione delle carriere, è comune nel settore privato.
Un secondo alleato del principio del merito è il principio del contraddittorio, che è uno dei principi universali del diritto amministrativo. Esso è il principio in base al quale, prima di adottare una decisione che riguarda un certo soggetto, bisogna ascoltare il soggetto stesso. Il principio del contraddittorio, che è un aspetto di quelle che Constant chiamava le libertà dei moderni, è un principio il cui legame con il principio del merito è mostrato proprio dalle recenti sentenze n. 103 e n. 104 della Corte costituzionale, nelle quali la Corte ha detto che, prima di liberarsi di un dirigente, bisogna contestargli gli addebiti, ovvero c’è bisogno di un procedimento che si basi sul principio del contraddittorio.
Un terzo alleato importante (o un corollario del principio del merito) è il principio di trasparenza: le valutazioni fatte nei concorsi e nel corso delle carriere hanno poco senso e sono poco credibili se non sono pubbliche e trasparenti. Purtroppo, però, nel nostro ordinamento di trasparenza amministrativa ce ne è ben poca. Abbiamo una legge sulla trasparenza amministrativa ma questa legge è molto restrittiva, è applicata in modo ancora più restrittivo ed è molto arretrata rispetto alle leggi che negli ultimi dieci o quindici anni sono state approvate e sono entrate in vigore in moltissimi paesi occidentali e non solo.
Una volta descritto questo intreccio di principi, su cui si basa il principio del merito, vorrei parlare un po’ della proposta elaborata da un gruppo di persone coordinato da Pietro Ichino e da me nei mesi scorsi, che trae origine dal dibattito che era stato avviato da Ichino con i suoi articoli sul Corriere della sera sui fannulloni, sui licenziamenti ecc. La nostra proposta, in realtà, con i fannulloni ed i licenziamenti ha poco a che fare: essa consiste nel completamento di un sistema di valutazione degli uffici e dei dipendenti pubblici, che nel nostro ordinamento è largamente insoddisfacente. Essa muove dall’osservazione di una serie di deficit nel nostro ordinamento, ai quali accenno brevemente.
In primo luogo, c’è un difetto di controllo: un’inadeguatezza del sistema dei controlli interni. Gli uffici di controllo interno spesso non esistono e, se esistono, nella maggior parte dei casi sono strutture nominali che non sanno come lavorare e sono poco attive. C’è dunque bisogno di un organismo che stimoli l’attuazione della legge: va infatti ancora attuato il sistema di controlli previsto dalle norme emanate a partire dal 1999. A questo scopo noi ipotizziamo la costituzione di un soggetto indipendente (autorità, agenzia o commissione che sia) che abbia, fra i suoi compiti, quello di stimolare l’attuazione della legge sotto questo profilo.
C’è anche un difetto di valutazione: difetto non solo di attuazione della legge, ma proprio di essa. Le norme sono, infatti, ampiamente insoddisfacenti, in primo luogo perché prevedono la valutazione degli uffici ma non prevedono la valutazione dei singoli, che invece spesso va fatta. Qui per esemplificare parto da me stesso, dalla categoria dei professori universitari: alla fine del mio corso, gli studenti compilano questionari in cui dicono se sono o non sono soddisfatti, danno voti sulla puntualità a lezione, sull’approfondimento, sulla chiarezza e sull’adeguatezza dei libri di testo. Vengono poi fatte delle statistiche sulla base di questi questionari e l’unico rilievo che esse hanno è la mia soddisfazione o insoddisfazione personale. queste statistiche le vedo solo io e - forse - il preside della mia Facoltà; esse non incidono minimamente né sulla mia carriera, né sulla mia retribuzione, né sull’attribuzione di fondi di ricerca. A cominciare dai professori universitari - ma non solo per loro - c’è dunque bisogno di migliore valutazione.
In terzo luogo, c’è un difetto di indipendenza dei soggetti che fanno la valutazione. Coloro che svolgono i controlli interni spesso sono nominati dai vertici politici delle amministrazioni e rispondono soltanto ad essi. Di questo ho avuto una drammatica conferma ieri, leggendo il giornale, per quanto riguarda i servizi di controllo interno nelle regioni. Questo assoggettamento degli organi di controllo ai vertici politici - messo insieme allo spoils system che ci è stato somministrato negli ultimi anni - significa che non c’è quella distinzione di interessi tra controllati e controllanti, che dovrebbe essere alla base dei sistemi di controllo. A questo noi proponiamo di rimediare attribuendo a questo soggetto indipendente il compito di informare quelli che poi sono i veri padroni delle pubbliche amministrazioni, cioè i cittadini. I controlli, dunque, dovrebbero essere trasparenti e i risultati dell’azione di controllo dovrebbero essere resi pubblici. Per gli studiosi italiani, infatti, oggi è più facile accedere alle relazioni fatte dagli organi di controllo dell’amministrazione californiana, inglese o svedese che alle relazioni degli organi di controllo fatte dalle amministrazioni italiane, semplicemente perché i primi stanno nei siti internet, mentre i secondi sono custoditi in qualche cassetto.
Qui c’è un problema generale di trasparenza amministrativa: essa nel nostro ordinamento è sacrificata, la riservatezza riceve una tutela sproporzionata e, in particolare, in materia di controlli di trasparenza ce n’è poca. Per questo noi ipotizziamo che questa autorità o commissione indipendente, oltre a stimolare lo svolgimento dei controlli, oltre a fornire criteri, a spiegare e a dare indicazioni su come i controlli vanno fatti, oltre a mostrare e a rendere pubbliche le migliori pratiche a livello nazionale ed internazionale, debba svolgere anche questa funzione di “megafono”. Essa dovrebbe, cioè, organizzare public reviews, incontri annuali nel corso dei quali verrebbero discussi i risultati dei controlli e delle valutazioni insieme ai rappresentanti dei lavoratori, degli utenti e così via.
Infine, nel nostro ordinamento c’è un difetto di merito, che è il risultato di tutto quello che ho detto prima. L’accesso alla pubblica amministrazione spesso avviene senza concorso o con modalità che somigliano timidamente a un concorso; il difetto di merito esiste anche nelle progressioni di carriera e nelle retribuzioni; esso è dovuto a vari fattori. Nella nostra proposta di legge noi abbiamo ipotizzato di introdurre una serie di correttivi relativi alla struttura delle retribuzioni, ai poteri dei vari servizi di controllo interno e ai poteri di indirizzo di questa autorità o commissione. Si tratta di correttivi che dovrebbero introdurre un po’ più di merito nel nostro ordinamento.
L’approccio di questa proposta non è quello di stravolgere l’esistente, non è quello di modificare radicalmente il sistema dei controlli delineato dalle norme vigenti, ma è quello di introdurre qualche correttivo e di completare il sistema che già esiste. Non si vogliono rivoluzionare i controlli interni, ma li si vuole completare; non si vuole rivoluzionare la responsabilità dei dirigenti e dei dipendenti pubblici, ma anche in materia di responsabilità disciplinare, dirigenziale ed erariale ci sono una serie di norme un po’ specifiche che servono a far funzionare meglio le singole forme di responsabilità, a cominciare da quella disciplinare; non si vuole modificare il rapporto tra legge e contrattazione collettiva, ma si vuole introdurre qualche paletto e qualche limite agli sconfinamenti di quest’ultima.
Questa proposta di legge ha dato luogo ad un intenso dibattito, che avete potuto seguire anche sui giornali, e questo è un fatto positivo perché l’obiettivo fondamentale di Ichino e mio era proprio quello di far discutere su questo tema. La proposta è stata presentata alla Camera dei deputati e al Senato e il Ministro Nicolais si è detto favorevole, entro certi limiti, a fare propri alcuni dei suoi contenuti. Questo è lo stato dell’arte, vedremo quello che succederà. Grazie.

mercoledì, 3 dicembre 2008
MA IL MERITO È DI DESTRA O DI SINISTRA?
http://avanzi-avanzi-avanzi.blog.kataweb.it/2008/12/03/ma-il-merito-e-di-destra-o-di-sinistra/

Uno direbbe: di destra, perché il merito viene agitato come una clava da quelli di destra contro quelli di sinistra, accusati di non voler premiare il merito, perché fissati con i miti sessantottini dell’egualitarismo o, peggio ancora, prigionieri dei corporativismi sindacali. Da un altro punto di vista, ma all’interno della stessa logica, il fatto che il merito sia citato nello statuto del partito democratico dimostrerebbe, secondo alcuni, quanto il PD sia ormai succube di una cultura “centrista”.

Ma promuovere i capaci e meritevoli (come si esprime la nostra gloriosa Costituzione, all’art. 34) indipendentemente dalla classe sociale di nascita e dai privilegi che ne derivano, è una tipica missione della sinistra, sinistra che in questo caso raccoglie una bandiera della borghesia illuminata.

Certo, prima sarebbe meglio chiarire che cos’è sinistra e destra.

Connaturale alla sinistra, sosteneva Norberto Bobbio, è proporsi come obiettivo l’uguaglianza, o almeno, realisticamente, una maggiore uguaglianza. La destra è invece più disposta a convivere con la disuguaglianza, senza sentirsene troppo turbata. Infatti la grande disuguaglianza esistente dentro la società italiana, ai massimi livelli del mondo occidentale, come attesta la recente ricerca dell’OCSE, dimostra fino a che punto in Italia ha vinto la destra.

Il merito è “di destra”, quando per premiarlo si vogliono aumentare le differenze. Però c’è differenza e differenza: quelle che derivano dalla nascita, dal far parte di una rete di conoscenze (che in sè non è negativo, ma lo diventa quando i “conoscenti” si alleano per escludere quelli che non appartengono alla rete stessa), infine le differenze (più accettabili) che derivano - appunto - dal riconoscimento del merito.
Tuttavia, a mio parere, l’esistenza di differenze non garantisce affatto il riconoscimento del merito. Per esempio, fra docenti di scuola media superiore non vi sono differenze di status, retribuzione ecc., all’università invece sì. Quindi l’università dovrebbe essere in grado di offrire di più ai più bravi, ma se così fosse, non staremmo a lamentare scandali ed ingiustizie. Quindi non basta “moltiplicare gli scalini” per premiare i meritevoli. Ma finché gli scalini ci sono, deve salirli solo chi ha meriti e competenze, se si vuole che la società funzioni.

In una società puramente utopica, uno potrebbe essere motivato ad impegnarsi non dall’aspettativa di una ricompensa, ma semplicemente dal piacere di fare un bel lavoro, dal desiderio di migliorare la società, da motivazioni ideali che, in misura maggiore o minore, abbiamo tutti (non siamo solo animali economici). Ma quando le ricompense vanno a chi non le merita, allora anche l’idealista bravo, a meno che non sia proprio un eroe, depone ogni speranza ed torna a coltivare il proprio giardino, come - non a caso - fanno ormai tantissimi.

Con grande danno per l’intera società, che viene privata del contributo dei “migliori”.

Dobbiamo occuparci anche del numero degli scalini (l’uguaglianza), possibilmente riducendoli, ma intanto dobbiamo decidere chi ha il diritto di salirli. Sono due questioni un po’ diverse. Ma la sinistra deve avere in agenda anche la prima.

Insomma, c’è un merito per “escludere” e un merito per “includere”, uno per ampliare le differenze o uno per ricucirle. Il primo è di destra e il secondo di sinistra, e scusate la grossolanità.

17 Febbraio 2010
IL MERITO DEVE UNIRE NON DIVIDERE LE COMUNITÀ
di Giovanni Bazoli
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/dossier/Italia/2009/commenti-sole-24-ore/17-febbraio-2010/bazoli-merito-deve-unire.shtml

Fonte Il Sole 24 ore

Elemento cardine di ogni sistema democratico è il principio dell’uguaglianza: da intendere, ovviamente, non come presupposto, bensì come scopo da perseguire.

Come ha scritto Norberto Bobbio, non è che gli uomini siano uguali. L’uguaglianza è un punto d’arrivo: è un dovere da compiere.

Ma a questo punto c’è da chiedersi se il compito di perseguire l’uguaglianza - che rappresenta, come appena detto, il fine ultimo e la stessa ragion d’essere della democrazia - spetti esclusivamente alla sfera politica o anche a quella economica. E, conseguentemente, se le regole riguardanti l’attività economica debbano servire solo ad assicurare la libertà, la concorrenza e l’efficienza, o anche a soddisfare le ragioni dell’equità e della giustizia.
È intorno a questo cruciale quesito che si impone un profondo ripensamento del sistema economico di mercato. La libertà di iniziativa economica, come il diritto di proprietà, appartiene alla sfera dei diritti inviolabili della persona umana. Ma il primato della libertà sull’uguaglianza non può essere assoluto, neppure nell’ambito economico. Si profila altrimenti, come inevitabile, quella deriva utilitaristica, orientata alla ricerca esclusiva del profitto e dell’arricchimento individuale o aziendale, che nessun intervento successivo può essere in grado di riequilibrare.
Il grande problema che le regole dell’economia devono risolvere è dunque quello di contemperare la tutela della libertà con quella dell’uguaglianza. Si tratta di una condizione imprescindibile perché si instauri davvero una “democrazia economica”. Nuove regole sono necessarie. Ma, a parte la considerazione che nell’economia globalizzata nuove regole esigono assolutamente nuovi modelli di “governance globale”, la correzione dei difetti e delle distorsioni del capitalismo, evidenziati dalla crisi che stiamo vivendo, non può esaurirsi in una questione di regole, perché queste ultime rimandano necessariamente a una nuova antropologia. La grande sfida da affrontare è quella di superare la supposta neutralità dell’economia.
[…] Alla base del sistema capitalistico cha ha dominato la scena negli ultimi decenni si trova l’assunto teorico che ogni uomo, quando opera come homo oeconomicus, è legittimato, nello spazio di libertà riconosciutogli dalle norme giuridiche, a perseguire obiettivi egoistici (ossia il massimo guadagno e profitto); mentre deve perseguire l’interesse generale solo quando agisce come cittadino e concorre, come tale, alla formazione di quelle norme. Questa tesi ammette come normale una dicotomia tra homo oeconomicus e homo politicus che risulta in evidente contraddizione con l’inscindibilità della persona umana e la necessaria coerenza e continuità della sua ispirazione morale, che non può venir meno nel momento dell’agire economico. L’integralità dell’uomo rappresenta il nucleo primario su cui deve fondarsi una nuova concezione del rapporto tra economia e società.
La necessaria coerenza di ispirazione morale nella condotta degli uomini è l’elemento che induce a ricercare un aspetto di continuità, invece della discontinuità e della frattura che viene solitamente ravvisata, tra comportamenti che giuridicamente sono definiti come leciti (diritti) e altri che sono definiti come doverosi (obblighi).
Del resto, va considerato che l’adozione di nuove regole, mentre da un lato può risultare insufficiente, d’altro lato ha sempre come costo la riduzione degli spazi di libertà. Parallelamente all’adozione di nuove regole, occorre dunque che l’operatore avverta, nell’esercizio della libertà e dei diritti che gli competono, la propria responsabilità di “cittadino”, cioè di membro e protagonista della comunità democratica. Sotto questo profilo si manifesta come decisivo il ruolo rappresentato dal senso di “responsabilità sociale” dell’imprenditore. La realizzazione dell’interesse particolare (personale o aziendale) va coniugata con quella dell’interesse generale. In altre parole, l’interesse generale - che può essere definito “bene comune” - dev’essere sempre l’orizzonte in cui si collocano le scelte che gli uomini d’impresa compiono anche nella sfera di libertà individuale che è loro riconosciuta.
Qui entra in gioco l’ethos religioso. Il linguaggio religioso ha infatti la capacità di custodire ed esprimere delle “ragioni” che il discorso pubblico non può ignorare. In uno Stato liberal-democratico è giusto “che i cittadini secolarizzati partecipino agli sforzi per tradurre rilevanti contributi dal linguaggio religioso in un linguaggio pubblicamente accessibile”.
Ed è proprio a questo proposito, cioè nell’ambito di una riflessione su quelle che sono le radici culturali e religiose del sistema liberale e capitalistico, che si pone, a mio avviso, un ultimo interrogativo. Il capitalismo, com’è ampiamente noto, ha trovato il suo humus nella Riforma protestante, nell’idea della ricchezza come grazia, ossia nell’idea che i doni e i talenti naturali riconosciuti agli uomini e la loro fortuna, il loro successo temporale, siano un segno della benedizione divina, un premio.
Ma è forse giunto il momento di chiedersi se sia giusto che il sistema economico di mercato continui a ispirarsi prevalentemente a questo ethos di stampo calvinista e weberiano.
Certamente l’ipotesi di un’economia affrancata dall’egoismo risulterebbe astratta e utopica, perché la motivazione dell’agire economico è sempre data dall’interesse individuale al miglioramento delle proprie condizioni di vita, cioè al proprio arricchimento. La storia dimostra che i sistemi economici che mortificano l’incentivazione personale sono destinati a fallire. E d’altronde nessuno può negare che si tratti di tendenze e aspirazioni individuali che sono scritte nel Dna umano. Come nessuno può dubitare che la meritocrazia sia un principio da valorizzare in ogni organizzazione sociale e che la concorrenza sia una procedura utile e insostituibile al fine di selezionare le persone e le produzioni migliori.
È proprio su questi punti, tuttavia, che mi pare necessario aprire una nuova e spregiudicata riflessione. Siamo certi che una concezione etica dell’economia che assolutizzi il primato del merito ed esalti la competizione al fine di selezionare i più bravi e i più forti sia aderente ai principi evangelici? Non è forse vero che un sistema improntato a questa logica comporta ineluttabilmente una radicalizzazione, anziché una mitigazione, delle disuguaglianze economiche e sociali? E non è altresì vero che alcuni degli aspetti degenerativi del sistema sono derivati dalla condotta di manager di primissimo piano, disposti anche a forzare i risultati aziendali al fine di percepire compensi e premi smisurati?
Ripeto: il merito rappresenta certamente un fattore imprescindibile di promozione della comunità civile: un valore da contrapporre al disvalore dell’assistenzialismo. Purché il sistema non sia costruito attorno all’idea che i più bravi, i più forti, i più capaci meritino di essere premiati illimitatamente. È altrettanto certo che la concorrenza e la ricerca di efficienza sono regole inderogabili da seguire per la crescita economica e civile della società. Purché non diventino il metro adottato per valutare ogni attività umana.
A questo riguardo sarebbe opportuna una riflessione preliminare sul significato e l’applicazione che l’idea di merito e di concorrenza ha trovato nell’ambito economico. È il caso infatti di chiedersi se il merito nella conduzione delle aziende debba continuare ad essere misurato secondo i criteri correnti, teorizzati nelle scuole di formazione manageriale e ispirati al postulato (di derivazione smithiana) che la soddisfazione di utilità particolari (come le forti incentivazioni personali per i manager e il massimo profitto e il continuo incremento di valore per gli azionisti) si traduca automaticamente in una crescita del benessere dell’intera collettività. Nella valutazione della professionalità dei manager e dell’” eccellenza” delle aziende sembra evidente che dovrebbe trovare maggior peso la capacità di “farsi carico” - secondo un’esigenza esplicitamente richiamata anche dall’ultima enciclica - degli interessi “di tutte le categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa” e, in ultima istanza, dell’intera “comunità di riferimento”. E così pure, per quanto riguarda la concorrenza, non si può fare a meno di osservare come la concezione genuina di un pluralismo di operatori - utile, anzi indispensabile, al fine di migliorare la qualità dei servizi e dei prodotti offerti al mercato - sia oggi sopraffatta dalla prassi di una competizione volta all’eliminazione dei concorrenti, a malapena controllata dalla legge.
Il problema è dunque quello dei correttivi da introdurre, per evitare che il primato del merito e il principio del confronto competitivo finiscano per legittimare una radicalizzazione delle disuguaglianze.
Il diritto di far valere i propri talenti deve accompagnarsi anche in ambito economico a inderogabili doveri di solidarietà. Ciò comporta il rifiuto di una logica puramente funzionale che porta a considerare l’impresa come finalizzata a creare profitti nell’interesse esclusivo degli azionisti e dei manager, senza farsi carico degli interessi generali della comunità in cui opera. La verità è che l’obiettivo della crescita della ricchezza e del benessere non può essere disgiunto da quello della riduzione delle disuguaglianze. L’attuazione di questo principio, che deve ispirare sia la definizione delle regole sia i comportamenti dei singoli operatori, rappresenta la grande sfida che attende il sistema economico e sociale del prossimo futuro.
Giovanni Bazoli

Il testo del presidente di Banca-Intesa è tratto dal saggio Chiesa e capitalismo, edito da Morcelliana, in uscita nei prossimi giorni

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