lunedì 26 dicembre 2011

Si chiamava diritto allo studio (a 3 anni)



Si chiamava diritto allo studio (a 3 anni)

di Giancarlo Cerini

Una storia prestigiosa

Che succede alle scuole considerate il nostro gioiello di famiglia? Ci riferiamo alle scuole dell’infanzia italiane, giudicate non a torto, tra le migliori al mondo. I tassi di frequenza sono (erano?) tra i più alti in Europa: oltre il 97% dei bambini dai 3 ai 5 anni risulta iscritto, mentre l’Europa si pone ancora l’obiettivo del 95% al 2020. I livelli di qualità sono certamente differenziati (questo è il cruccio vero del sistema educativo del nostro paese), ma in genere con uno standard elevato, nonostante (o forse proprio perché) il settore prescolastico sia storicamente articolato in scuole statali, comunali, private paritarie. La sua presenza è assai capillare, conta su una rete di oltre 24.000 (micro)strutture scolastiche, una vera scuola di “prossimità”, molto vicina alle comunità di riferimento. Gode di programmi didattici avanzati (gli Orientamenti del 1991 fanno ancora testo) e di un corpo insegnante motivato verso il proprio lavoro, disponibile a rimettersi in gioco e a curare il proprio aggiornamento. E’ vero, la ferita dell’anticipo a 5 anni non è stata ancora rimarginata (perché metteva in crisi un progetto triennale apprezzato), mentre i pasticci sul fronte dell’anticipo a 2 anni non hanno consentito di far decollare, come auspicato, l’esperienza delle sezioni primavera (per i bambini dai 2 ai 3 anni), come servizio complementare all’asilo nido e alternativo all’anticipo .

Le cattive notizie

Di qui, a partire dalla persistente immagine positiva, cominciano le cattive notizie:
- certi Comuni non riescono più a sostituire nelle loro scuole dell’infanzia il personale di ruolo che va in pensione, tanto che in alcune prestigiose realtà comunali il 50% del personale è supplente! Sembra incredibile!
- in alcune scuole statali del sud, ci sono mamme che vanno a ritirare i bambini all’ora della mensa, perché non possono permettersi di pagare la retta ;
- in tante realtà sono tornate a fiorire le liste d’attesa, un fenomeno che era stato superato almeno da vent’anni, grazie anche all’intervento programmato e progressivo dello Stato nel mettere a disposizione i posti necessari per l’espansione del servizio;
- in altri comuni (anche questi prestigiosi) si stanno ormai esternalizzando parti del curricolo, non meramente integrative (lo capiremmo…), ma essenziali come il pomeriggio (non il prolungamento del tardo pomeriggio) o le attività di sostegno;
- a volte lo Stato apre una nuova sezione, ma assegna un solo docente (quando il modello ad ordinamento –Dpr 89/2009- nel 91% dei casi prevede un orario a tempo lungo, con il doppio organico), costringendo Regioni, Enti locali, genitori a doppi e tripli salti mortali per assumere una qualche figura avventizia per assicurare un minimo di durata del servizio;
- le risorse pubbliche per le sezioni primavera stanno diminuendo, i tempi ed i ritardi burocratici negli indispensabili accordi rendono difficoltosa la prosecuzione di una esperienza promettente.
Sul piano finanziario, i costi richiesti per frequentare una scuola dell’infanzia (comunale, statale, o privata) stanno salendo incredibilmente, perché mensa, servizi di scodella mento (!?), prescuola, ed altre “accise” portano spesso la quota mensile di frequenza anche verso i 200-300 euro mensili, facendo tornare l’iscrizione alla materna un onere “individuale” per le famiglie, piuttosto che una struttura educativa per tutti. Ve lo immaginate se la famiglia benestante che manda al liceo statale il proprio figliolo si sentisse richiedere una retta annuale di 2-3.000 euro (quando oggi c’è chi mette in mora il preside perché ha osato chiedere un contributo di 150 euro annue, assicurazione compresa?).

Riscoprire un diritto civile

Insomma, qualcosa non va nella nostra civilissima Italia. Se quello che fin dagli anni ’70 veniva considerato un diritto (“il diritto allo studio comincia a tre anni” titolava un volumetto di battaglia pubblicato a quel tempo dagli Editori Riuniti, ad opera del volitivo assessore comunale Liliano Famigli), ma se quel diritto universale oggi è rubricato ad un mero servizio a domanda individuale, subendone tutte le conseguenze sul piano tariffario e del contributo chiesto ai genitori, l’educazione della prima infanzia sta correndo serissimi problemi, nelle aree forti e deboli del nostro paese, nel sistema pubblico e nel sistema privato (anche lì, le risorse sono state congelate), in controtendenza rispetto alle stesse indicazioni europee.
Che ne sarà del motto “Starting strong” (“partire alla grande”) che stava scritto nel Rapporto Ocse sulla scuola dei piccoli , che pure premiava il modello italiano? Come onorare l’indicatore (Indagine Pisa 2009) che mette in correlazione la frequenza della scuola dell’infanzia con un migliore successo negli apprendimenti a 15 anni? Come promuovere un rafforzamento della formazione nella scuola di base (oggi rilanciata dall’idea di generalizzare gli istituti comprensivi ), che richiede di dare piena dignità e vigore al primo incontro con i saperi, dai 3 ai 5 anni? Come superare il dislivello di offerta che si manifesta tra i comparti 0-3 anni (gli asili nido, fermi al 15%) e 3-5 anni (le scuole dell’infanzia, ormai al 97% ma con le criticità che abbiamo visto)? Come essere coerenti con le tradizioni, vecchie e nuove, della ricerca pedagogica italiana sull’infanzia, fatta di illustri accademici ma anche di tante “esperienze” innovative promosse sul campo?
Sono interrogativi ineludibili, che richiedono risposte di ordine politico, tecnico-amministrativo, legislativo, professionale.

Comune e “terzo” settore

Intanto sembra urgente un provvedimento di legge che sfili il settore delle scuole dell’infanzia comunali dai vincoli capestro che condizionano i Comuni (mancata sostituzione dei pensionamenti, tetti di spesa per le supplenze, mancato reclutamento di nuovi docenti, interventi per il sostegno, ecc.) adottando le stesse regole vigenti nel parallelo settore statale. Qui è a rischio la stessa sopravvivenza della terza filiera (quella comunale) del settore infanzia, che tanto ha dato all’intero sistema educativo italiano. Già si sentono assessori affermare che la gestione delle scuole comunali non rientra tra le priorità dell’ente locale, che è una situazione del tutto residuale, che ben venga una bella “statizzazione”, così finirebbero l’incertezza ed i problemi di bilancio. Ma in questo modo si priverebbe il sistema di una linfa vitale (posto che si recuperino le criticità di oggi). Servono decisioni rapide, come hanno segnalato le neo-assessore all’infanzia dei Comuni di Napoli, Milano, Torino e Bologna .
Per lo stesso motivo si dia garanzia di contributi pubblici al settore privato (quelli statali previsti da leggi, quelli regionali e comunali previsti da convenzioni), ma si dica chiaramente che il privato che riceve finanziamenti pubblici deve rispettare i criteri propri di una scuola che ambisce svolgere una funzione pubblica. Non sempre si accolgono utenti a prescindere da condizioni sociali, etniche, religiose (economiche…); non sempre si coordinano le iscrizioni, dando vita a concorrenza impropria (ad esempio, tutti dovrebbero farsi carico della presenza di bimbi stranieri); il sistema dei controlli è troppo evanescente. La scuola privata vorrebbe il riconoscimento automatico di “pubblica”, ma le nostre leggi (la 62/2000 di berlingueriana memoria, detta di “parità”) pongono regole che vanno rispettate (che dire degli allievi fuori età? dei contratti di lavoro dei docenti? dei programmi didattici?). La sussidiarietà non significa che lo Stato e gli Enti pubblici abbandonano il loro dovere di dare indirizzi, standard, garanzie, a piccoli e grandi.

Gli impegni dello Stato

Ma intanto lo Stato deve prendersi cura delle sue scuole: sono ben 13.553 scuola (56% del comparto), 993.226 bambini (59,1% dei bambini), 81.197 insegnanti di ruolo, il settore maggioritario del comparto, cresciuto in poco più di 40 anni (dalla mitica legge 444 del 18-3-1968, quella che fece cadere diversi Governi). Andare a scuola a tre anni costituisce in quasi tutte le Regioni il primo impatto di genitori e allievi con una istituzione pubblica, che rappresenta una garanzia di uguaglianza di opportunità, di incontro con la lingua e la cultura del nostro paese (in un ambiente sempre più plurilingue). E’ un tassello fondamentale della cittadinanza, che va difeso con più ostinazione di quanto facciano le leggi. Spesso, con l’alibi che la scuola dell’infanzia non è obbligatoria, si deve registrare il disimpegno delle istituzioni, non si provvede di fronte a domande effettive di scolarizzazione, il servizio non viene garantito nella sua universalità. Riteniamo che la scuola dai 3 ai 5 anni possa continuare a non essere obbligatoria, per non omologarla o “anticiparla” rispetto a compiti formativi che sono successivi, ma che il suo “status” giuridico debba essere quello di una istituzione educativa da garantire con certezza.
Oggi c’è una richiesta pressante di servizi educativi, ma bisogna seguire meglio le dinamiche demografiche e le nuove zone di insediamento, facendo fronte alle aree di criticità (detto in altre parole: occorre predisporre uno stock di sezioni aggiuntive e di insegnanti ogni anno, per rispondere alle richieste inevase). Occorre rilanciare la formazione e la ricerca didattica tra il personale (e l’approccio al monitoraggio delle Indicazioni è una risposta tardiva e al momento insufficiente) , soprattutto per trasmettere sapere e passione ai nuovi insegnanti, valorizzando le competenze di quegli insegnanti magari vicini alla (o già in) pensione, che hanno dato molto in questa direzione.
Sezioni ed insegnanti non sono le uniche condizioni che fanno qualità. Pensiamo al personale ausiliario (questione che non si può liquidare con l’infelice battuta che non servono i carabinieri a scuola) perché l’assistenza educativa a 3 anni significa autonomia, corpo, sicurezza, benessere, identità. Pensiamo ai cosiddetti “servizi” (il trasporto, la mensa, ecc.) perchè non sono un optional e “fanno qualità” e quindi le quote di partecipazione finanziaria degli utenti devono essere calmierate e rese sostenibili.

Una “survey” per la “materna”

Sono dunque molti i punti di attenzione che dovremo riservare a questo delicato ma decisivo segmento del nostro sistema educativo, non solo per mantenere e confermare le nostre buone posizioni, ma per rilanciare l’idea di una scuola dell’infanzia di qualità, plurale nella sua gestione, ma accomunata nella ricerca di standard educativi di elevato spessore.
Si ricostituisca al centro un nucleo pensante, un osservatorio (che potrà essere posizionato al MIUR, ma che dovrebbe aprirsi ad una logica inter-ministeriale e inter-istituzionale), che veda le diverse azioni che si possono “cantierare” per salvaguardare la qualità (e la quantità) delle nostre scuole dell’infanzia. Serve una “survey” sul sistema educativo 3-5 anni che aiuti a capire meglio quali sono le condizioni che possono favorire il persistere della buona scuola dell’infanzia italiana.

giovedì 17 marzo 2011

Per formare “insegnanti sufficientemente buoni”


Una due giorni a Bologna per riflettere sulla formazione (e sulla condizione) insegnante

Nei giorni 18-19 marzo, a partire da venerdì pomeriggio, nell’Aula magna della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna, si svolge un meeting che ospita esperti e insegnanti provenienti da tutta Italia, per affrontare le questioni connesse alle nuove modalità di formazione universitaria degli insegnanti e del loro “sviluppo professionale”. Da pochi giorni, infatti, è entrato in vigore il DM 249/2010 che dal prossimo anno accademico modifica in profondità i meccanismi di preparazione dei nuovi insegnanti, affidandoli all’Università (sia per la scuola primaria, che per la secondaria) e rafforzando la preparazione sulle discipline e sui metodi di insegnamento. Il percorso si allunga (3 anni di laura più 2 di laurea specialistica, più 1 anno di tirocinio abilitante; 5 anni a ciclo unico per la scuola dell’infanzia ed elementare) e viene prevista una fase transitoria per l’acquisizione dell’abilitazione. Di questo si parlerà nel convegno organizzato dalla Facoltà di Scienze della Formazione e dal Cidi, una delle più rappresentative associazioni professionali degli insegnanti, per mettere a fuoco le novità del nuovo modello, a partire dai laboratori professionali, dal tirocinio formativo “attivo”, dal più intenso rapporto tra Università e scuola, indispensabile per costruire professionalità adeguate ai nuovi bisogni dei ragazzi e dell’insegnamento: un percorso che in Emilia-Romagna vanta già prestigiose tradizioni sperimentali.
Il convegno, che si articola in tre sessioni (la formazione iniziale, la formazione in servizio, il riconoscimento di impegni e meriti), vuole proprio seguire passo passo un ideale curriculum della figura dell’insegnante: come viene preparato e reclutato, come la sua competenza può svilupparsi a contatto con la vita e le dinamiche della scuola (non si è mai “insegnanti per sempre”) e come, infine, è possibile riconoscere la qualità del lavoro e dell’impegno, senza suscitare inutili competizioni, ma per stimolare il miglioramento di tutto il corpo docente.
Su questi tre aspetti, strettamente correlati, i promotori del seminario (che si avvale anche dei patrocini dell’Ufficio Scolastico Regionale, della Regione, dell’IRRE e dell’Associazione Scuole autonome dell’Emilia-Romagna) hanno diffuso un documento preliminare, per avviare il confronto ed il dibattito –prima e dopo il convegno – anche attraverso un apposito sito sul web: http://forminsegnanti.scform.unibo.it/ . Molte le idee in discussione: rafforzare gli aspetti operativi e laboratoriali della prima formazione, incentivare le attività di ricerca didattica. Rendere obbligatoria la formazione in servizio, istituire un apposito fondo per ogni scuola che si impegna nell’innovazione sull’insegnamento e nella formazione del personale, con verifica anche esterna dei risultati.
Ne parleranno valenti studiosi, a partire dal Preside di Facoltà Luigi Guerra, animatore dell’iniziativa e interessato a sviluppare una nuova stagione di rapporti tra mondo della scuola e mondo dell’università, a Ivana Summa coordinatrice regionale del Cidi ed ad un ricco parterre di docenti universitari provenienti dalle Università di Milano, Verona, Urbino, Bologna e rappresentanti di docenti ed esperti provenienti da Torino, Firenze, Roma, Napoli. Previsto anche un fuori programma serale, venerdì all’osteria “Cantina Bentivolgio” (in zona universitaria), con un inedito duetto su “Come sono diventato insegnante”. Conclude la kermesse un confronto tra rappresentanti delle forze politiche e del mondo professionale. Previsto l’arrivo di esponenti del governo, tra cui il consigliere del Ministro all’istruzione Max Bruschi, e dell’opposizione.
Insomma, una ghiotta occasione, per essere informati su una novità destinata ad agire in profondità sulla condizione degli insegnanti italiani e che si innesta nel vivace dibattito suscitato dagli ultimi provvedimenti legislativi, non da tutti condivisi.

sabato 12 febbraio 2011

L'ARTE DI EDUCARE, IL RISCHIO DI INSEGNARE


Giovanni Vasumini, un educatore a tutto tondo

di Giancarlo Cerini



E’ sempre un compito ingrato quello di ricordare un amico, come era Giovanni Vasumini, anche in occasione della presentazione dei suoi scritti e delle sue riflessioni sull’educazione e la relazione con i giovani. Ma il ricordo a volte è indispensabile, per non perdere il valore della testimonianza, dell’impegno, della coerenza, affinchè il suo passaggio nelle nostre esistenze (così breve ahimè, ma così intenso) ci lasci un segno, una parola, un gesto, che aiuti ciascuno di noi in questa difficile avventura umana.

Giovanni era impegnato da sempre nella formazione professionale, una colonna dell’ENAIP di Forlì, ma era anche molto di più, per la sua passione umana e civile, per il gusto della relazione, dell’ascolto, delle imprese collaborative. Per l’esigenza di non accontentarsi dell’approssimazione, del pressappoco, del detto ma non messo in pratica, delle “funzionalità” come direbbe lui. Chissà, forse la sua preparazione specifica nel campo delle tecnologie e della meccanica, lo rendeva a noi “umanisti” quasi un provvidenziale alieno, capace di far fronte alle necessità pratiche che noi intellettuali quasi sembriamo disdegnare. Un retaggio della nostra cultura idealistica, quella che considera le scienze e la tecnologica quasi dei saperi minori, da vili meccanici. Molte volte abbiamo parlato di queste due culture (quella teorica e quella pratica), lui quasi rammaricato per il vulnus implicito che veniva inferto alla sua “formazione professionale” e convinto comunque che si potessero portare i ragazzi alla teoria, partendo dalla pratica.

Però, poi, era un nostro pari, perché amava misurarsi con le questioni alte, di senso, sull’educazione, sui valori di cittadinanza, sulle radici laiche e cristiane del nostro essere nella comunità e nella città. Credo che questa apertura a molti mondi, onnilaterale, lo rendesse una persona molto libera, molto aperta, molto tollerante, desideroso di mettersi in gioco e di mettersi alla prova in situazioni diverse, in contesti educativi diversi (nella scuola, per le tante frequentazioni professionali e di amicizia; nello scoutismo e nella vita della comunità ecclesiale; nella vita politica, ma con un approccio civile e pre-politico; nella famiglia, con i suoi cari (ma qui ci ritraiamo in riserbo, anche se ci aveva colpito una intervista pubblica –nel pieno della malattia- in un dialogo pubblico-privato con Paola sulla lievità della sofferenza, quasi per dare anche in quel momento una parola di speranza agli altri).

Giovanni aveva il talento dell’educatore, non del semplice insegnante, perché è assai facile preparare una “lezione” e proporla agli altri, stando seduti dietro la sicurezza di una cattedra. Insomma, l’istruzione dà troppo per scontato il rapporto frontale, l’idea di una “trasmissione” da chi sa a chi non sa, per erogare una prestazione quasi come un’altra, da fornire nei modi e nei tempi prefissati da qualche mansionario.
La relazione educativa è assai più impegnativa, perché intanto si mette in gioco non solo ciò che “si sa”, ma quello che “si è”. La relazione è di ascolto, di aiuto, di accompagnamento, ma non per questo di rinuncia: e forse il momento della verità è proprio come si costruisce un dialogo, come si sta a fianco, piuttosto che semplicemente davanti.
E questo stile educativo lo si apprende meglio se non c’è una cattedra, ma mentre si costruisce qualcosa, si impara una tecnica, si fa un’escursione, si aiuta qualcuno, si organizza un gruppo, si costruisce una squadra, ci si propone un risultato. Giovanni metteva in pratica e rafforzava la sua attitudine all’educazione frequentando luoghi e ambienti educativi diversi, credo con la capacità di riflettere sulla loro diversità e di continuare ad imparare da ogni contesto. Un educatore è tale se continua ad imparare dagli allievi.

Dunque un educatore a tutto tondo, da intendersi come insegnante, formatore, animatore, capo-scout, guida, volontario, genitore, visto come adulto che svolge compiti educativi in forme e contesti diversi, ma avendo in mente il senso della relazione di aiuto, quella che fa crescere e vuole rendere i ragazzi autonomi e responsabili. L’educazione si svolge in molte forme e in molti luoghi, questo è un tratto della nostra società post-moderna, ove la scuola sembra perdere di centralità, soprattutto per quei ragazzi che scelgono la strada “quasi obbligata” della formazione professionale, il luogo elettivo di Giovanni “formatore”.

“Formazione” è una parola impegnativa (e qui la vogliamo sganciare dal termine tecnicistico che la associa esclusivamente alla istruzione professionale, all’idea di un addestramento utilitaristico, in vista di un mestiere o di un itinerario verso il lavoro).
Qui va piuttosto recuperata nel suo significato pieno di “dare forma”, strutturare, organizzare, sostenere l’altro nel suo processo evolutivo, dunque educare, insegnare… Concetti che i pedagogisti ci invitano a maneggiare con estrema cautela, anzi qualcuno diffida dall’usare un simile termine per non scivolare nel plagio, nel conformismo, nella forza asimmetrica dell’adulto che ha molti più strumenti del bambino, dell’adolescente, per imporre la sua visione del mondo, per giudicare. Tutto questo implica un’enorme responsabilità in chi dà o fa “formazione”.

Educare è un verbo delicato, soleva dire Margherita Zoebeli, la operosa fondatrice del Centro Educativo Italo-svizzero di Rimini, un ambiente che intreccia “fisicamente” anche i momenti didattici con quelli esistenziali, gli aspetti formali dell’istruzione con quelli informali della relazione, i momenti di scuola con quelli di routine, di gioco, di autogoverno.

Nella formazione professionale il “saper fare” dà nobiltà a tanti discorsi che ci facciamo sulle competenze, sull’esercizio, lo sforzo, la procedura sicura. Questi aspetti sono l’indice di un successo della prestazione e questo già suscita un primo livello di motivazione, di autostima, di fiducia nei propri mezzi. I ragazzi della formazione professionale sono impegnativi perché vanno aiutati a ricostruirsi non solo un proprio progetto formativo, ma a prospettarsi un proprio progetto di vita, da coltivare nella sua piena dignità umana, prima ancora che professionale,

La preparazione ad un mestiere, al lavoro, sembra rimandare ad una istruzione di valore apparentemente minore, ma invece rappresenta per molti ragazzi l’unica via per una riconquista di una dignità umana, di una responsabilità sociale. Una scuola della seconda opportunità, come direbbe Marco Rossi Doria, che testimonia comunque il fallimento della prima opportunità (la scuola), con la quale però mantenere una forma continua di dialogo. Ecco perché Giovanni (formatore) non disdegnava il dialogo con gli insegnanti, alla ricerca anche attraverso tante iniziative formative nel circolo cittadino delle ACLI, di una comune passione educativa.

Fare educazione nei luoghi non scolastici è certamente una impresa difficile, ma autentica. Perché bisogna esplorare e mettere a contatto mondi educativi apparentemente lontani (la scuola, la formazione professionale, i gruppi informali, la parrocchia, le associazioni di volontariato) che delineano luoghi e momenti del fare educazione, formali e non formali, diversi ma complementari e indispensabili per raggiungere quei risultati di rispetto della persona e di formazione dei cittadini, che riteniamo obiettivo largamente condivisibile e necessario nella nostra società e nella nostra comunità, a partire dalla relazione di aiuto a chi più ne ha bisogno (gli adolescenti, i ragazzi difficili, chi richiede accoglienza).

Qui l’educazione si confonde con la politica, nel senso più alto del termine (oggi certamente inattuale), perché non bastano i tecnicismi, le didattiche, la definizione di traguardi e metodi, se poi viene meno il “senso” civile e pubblico dell’educazione. Una certa idea di educazione, che riconferma la sua funzione di emancipazione umana e civile, di vicinanza ai ragazzi più indifesi e invisibili. Un luogo della cooperazione, dell’aiuto reciproco, dell’”insieme ce la possiamo fare” (voi ragazzi ed io, il vostro insegnante). Un richiamo ad una testimonianza forte come quella di Don Milani, educatore ma anche “politico”, perché la politica è appunto “sortirne insieme”.

Per Giovanni la “politica” era dunque un modo diverso di vivere la funzione pedagogica, certamente con la speranza di un cambiamento, per un governo degli onesti che non avrebbe non potuto non prendere le parti dei più umili. Ma la sua era una politica a voce bassa, senza l’enfasi degli schieramenti, perché l’intenzione era sempre quella di farla diventare un’ulteriore occasione di studio, di riflessione, di ricerca.

Ma di Giovanni resta un tocco di familiarità, di uomo faber, attento ai dettagli, disponibile all’ascolto. Per lui vale proprio la massima di Bruner che compito fondamentale dell’educatore è l’arte della cortesia del dialogo, una virtù maiuetica che si accompagna alla gentilezza del gesto e della voce, ad una sottile senso di autoironia che è anche senso del limite, deliberata decisione di non mettere in difficoltà l’interlocutore anche se sai perfettamente che tu sei più competente di lui su una certa cosa, magari perché ti aspetti lo stesso “trattamento” quando sarai tu in condizioni simili.

Grazie, per tutto questo, Giovanni.

lunedì 31 gennaio 2011

QUASI UN FEBBRAIO PEDAGOGICO IN ROMAGNA

Segnaliamo alcune iniziative che si svolgeranno nel mese di febbraio in Romagna

Sabato 5 febbraio a Saiano (nell’entroterra di Cesena) il Cidi organizza un seminario regionale per riflettere sull’identità e la funzione del dirigente scolastico. Tra Carl Rogers e Renato Brunetta è il sottotiolo provocatorio che gli organizzatori hanno dato all’incontro, per sottolineare la duplice pressione che oggi ricade sui capi di istituto nella scuola dell’autonomia: da un lato c’è l’esigenza di ascoltare le persone, la comunità, i bisogni dei ragazzi e condividere scelte e proposte; dall’altro la qualifica dirigenziale viene oggi irrigidita da provvedimenti di riforma della dirigenza pubblica che sembrano sollecitare l’assunzione di responsabilità e di poteri unilaterali. Un bel dilemma che sarà analizzato da Giancarlo Cerini, Marisa Falzoni, Lamberto Montanari e Maria Antonietta Stellati, con il coordinamento di Jaime Enrique Amaducci, dirigente scolastico, Cidi di Cesena.


Mercoledì 9 febbraio a Forlimpopoli (FC) una rete di Enti locali, scuole e istituzioni promuove un convegno sul "Unità d'Italia e Istruzione elementare - Come si costruisce una nazione". Si tratta di una ricostruzione storica del contributo della scuola elementare ai processi di alfabetizzazione, di formazione dell'identità nazionale, di sviluppo della cittadinanza. Relazioni di carattere storico e pedagogico e seminari di approfondimento, dove i problemi di oggi (tempo scuola, figura del maestro, pagelle, programmi) sono riletti anche in chiave storica. Insomma, la storia ci può aiutare a meglio capire (ma anche riorientare) il futuro che ci attende.


A Forlì, nei sabati pomeriggio del 12-19-26 febbraio, un ciclo di incontri anche per ricordare la figura di Giovanni Vasumini, formatore, educatore, animatore di iniziative culturali, impegnato su molti fronti educativi, formali e informali. "L'arte di educare, il rischio di insegnare" è il titolo che fa da sfondo a tre approfondimenti specifici su "Insegnare ai nuovi barbari, tra istruzione e formazione", "Educare in contesti difficili", "Peer education, scoutismo, guida educativa". Docenti universitari, insegnanti, genitori, esperti, porteranno le loro testimonianze per ricostruire a "tutto tondo" la figura dell'educatore (e di un grande educatore).

Cidi di Forlì