sabato 12 febbraio 2011

L'ARTE DI EDUCARE, IL RISCHIO DI INSEGNARE


Giovanni Vasumini, un educatore a tutto tondo

di Giancarlo Cerini



E’ sempre un compito ingrato quello di ricordare un amico, come era Giovanni Vasumini, anche in occasione della presentazione dei suoi scritti e delle sue riflessioni sull’educazione e la relazione con i giovani. Ma il ricordo a volte è indispensabile, per non perdere il valore della testimonianza, dell’impegno, della coerenza, affinchè il suo passaggio nelle nostre esistenze (così breve ahimè, ma così intenso) ci lasci un segno, una parola, un gesto, che aiuti ciascuno di noi in questa difficile avventura umana.

Giovanni era impegnato da sempre nella formazione professionale, una colonna dell’ENAIP di Forlì, ma era anche molto di più, per la sua passione umana e civile, per il gusto della relazione, dell’ascolto, delle imprese collaborative. Per l’esigenza di non accontentarsi dell’approssimazione, del pressappoco, del detto ma non messo in pratica, delle “funzionalità” come direbbe lui. Chissà, forse la sua preparazione specifica nel campo delle tecnologie e della meccanica, lo rendeva a noi “umanisti” quasi un provvidenziale alieno, capace di far fronte alle necessità pratiche che noi intellettuali quasi sembriamo disdegnare. Un retaggio della nostra cultura idealistica, quella che considera le scienze e la tecnologica quasi dei saperi minori, da vili meccanici. Molte volte abbiamo parlato di queste due culture (quella teorica e quella pratica), lui quasi rammaricato per il vulnus implicito che veniva inferto alla sua “formazione professionale” e convinto comunque che si potessero portare i ragazzi alla teoria, partendo dalla pratica.

Però, poi, era un nostro pari, perché amava misurarsi con le questioni alte, di senso, sull’educazione, sui valori di cittadinanza, sulle radici laiche e cristiane del nostro essere nella comunità e nella città. Credo che questa apertura a molti mondi, onnilaterale, lo rendesse una persona molto libera, molto aperta, molto tollerante, desideroso di mettersi in gioco e di mettersi alla prova in situazioni diverse, in contesti educativi diversi (nella scuola, per le tante frequentazioni professionali e di amicizia; nello scoutismo e nella vita della comunità ecclesiale; nella vita politica, ma con un approccio civile e pre-politico; nella famiglia, con i suoi cari (ma qui ci ritraiamo in riserbo, anche se ci aveva colpito una intervista pubblica –nel pieno della malattia- in un dialogo pubblico-privato con Paola sulla lievità della sofferenza, quasi per dare anche in quel momento una parola di speranza agli altri).

Giovanni aveva il talento dell’educatore, non del semplice insegnante, perché è assai facile preparare una “lezione” e proporla agli altri, stando seduti dietro la sicurezza di una cattedra. Insomma, l’istruzione dà troppo per scontato il rapporto frontale, l’idea di una “trasmissione” da chi sa a chi non sa, per erogare una prestazione quasi come un’altra, da fornire nei modi e nei tempi prefissati da qualche mansionario.
La relazione educativa è assai più impegnativa, perché intanto si mette in gioco non solo ciò che “si sa”, ma quello che “si è”. La relazione è di ascolto, di aiuto, di accompagnamento, ma non per questo di rinuncia: e forse il momento della verità è proprio come si costruisce un dialogo, come si sta a fianco, piuttosto che semplicemente davanti.
E questo stile educativo lo si apprende meglio se non c’è una cattedra, ma mentre si costruisce qualcosa, si impara una tecnica, si fa un’escursione, si aiuta qualcuno, si organizza un gruppo, si costruisce una squadra, ci si propone un risultato. Giovanni metteva in pratica e rafforzava la sua attitudine all’educazione frequentando luoghi e ambienti educativi diversi, credo con la capacità di riflettere sulla loro diversità e di continuare ad imparare da ogni contesto. Un educatore è tale se continua ad imparare dagli allievi.

Dunque un educatore a tutto tondo, da intendersi come insegnante, formatore, animatore, capo-scout, guida, volontario, genitore, visto come adulto che svolge compiti educativi in forme e contesti diversi, ma avendo in mente il senso della relazione di aiuto, quella che fa crescere e vuole rendere i ragazzi autonomi e responsabili. L’educazione si svolge in molte forme e in molti luoghi, questo è un tratto della nostra società post-moderna, ove la scuola sembra perdere di centralità, soprattutto per quei ragazzi che scelgono la strada “quasi obbligata” della formazione professionale, il luogo elettivo di Giovanni “formatore”.

“Formazione” è una parola impegnativa (e qui la vogliamo sganciare dal termine tecnicistico che la associa esclusivamente alla istruzione professionale, all’idea di un addestramento utilitaristico, in vista di un mestiere o di un itinerario verso il lavoro).
Qui va piuttosto recuperata nel suo significato pieno di “dare forma”, strutturare, organizzare, sostenere l’altro nel suo processo evolutivo, dunque educare, insegnare… Concetti che i pedagogisti ci invitano a maneggiare con estrema cautela, anzi qualcuno diffida dall’usare un simile termine per non scivolare nel plagio, nel conformismo, nella forza asimmetrica dell’adulto che ha molti più strumenti del bambino, dell’adolescente, per imporre la sua visione del mondo, per giudicare. Tutto questo implica un’enorme responsabilità in chi dà o fa “formazione”.

Educare è un verbo delicato, soleva dire Margherita Zoebeli, la operosa fondatrice del Centro Educativo Italo-svizzero di Rimini, un ambiente che intreccia “fisicamente” anche i momenti didattici con quelli esistenziali, gli aspetti formali dell’istruzione con quelli informali della relazione, i momenti di scuola con quelli di routine, di gioco, di autogoverno.

Nella formazione professionale il “saper fare” dà nobiltà a tanti discorsi che ci facciamo sulle competenze, sull’esercizio, lo sforzo, la procedura sicura. Questi aspetti sono l’indice di un successo della prestazione e questo già suscita un primo livello di motivazione, di autostima, di fiducia nei propri mezzi. I ragazzi della formazione professionale sono impegnativi perché vanno aiutati a ricostruirsi non solo un proprio progetto formativo, ma a prospettarsi un proprio progetto di vita, da coltivare nella sua piena dignità umana, prima ancora che professionale,

La preparazione ad un mestiere, al lavoro, sembra rimandare ad una istruzione di valore apparentemente minore, ma invece rappresenta per molti ragazzi l’unica via per una riconquista di una dignità umana, di una responsabilità sociale. Una scuola della seconda opportunità, come direbbe Marco Rossi Doria, che testimonia comunque il fallimento della prima opportunità (la scuola), con la quale però mantenere una forma continua di dialogo. Ecco perché Giovanni (formatore) non disdegnava il dialogo con gli insegnanti, alla ricerca anche attraverso tante iniziative formative nel circolo cittadino delle ACLI, di una comune passione educativa.

Fare educazione nei luoghi non scolastici è certamente una impresa difficile, ma autentica. Perché bisogna esplorare e mettere a contatto mondi educativi apparentemente lontani (la scuola, la formazione professionale, i gruppi informali, la parrocchia, le associazioni di volontariato) che delineano luoghi e momenti del fare educazione, formali e non formali, diversi ma complementari e indispensabili per raggiungere quei risultati di rispetto della persona e di formazione dei cittadini, che riteniamo obiettivo largamente condivisibile e necessario nella nostra società e nella nostra comunità, a partire dalla relazione di aiuto a chi più ne ha bisogno (gli adolescenti, i ragazzi difficili, chi richiede accoglienza).

Qui l’educazione si confonde con la politica, nel senso più alto del termine (oggi certamente inattuale), perché non bastano i tecnicismi, le didattiche, la definizione di traguardi e metodi, se poi viene meno il “senso” civile e pubblico dell’educazione. Una certa idea di educazione, che riconferma la sua funzione di emancipazione umana e civile, di vicinanza ai ragazzi più indifesi e invisibili. Un luogo della cooperazione, dell’aiuto reciproco, dell’”insieme ce la possiamo fare” (voi ragazzi ed io, il vostro insegnante). Un richiamo ad una testimonianza forte come quella di Don Milani, educatore ma anche “politico”, perché la politica è appunto “sortirne insieme”.

Per Giovanni la “politica” era dunque un modo diverso di vivere la funzione pedagogica, certamente con la speranza di un cambiamento, per un governo degli onesti che non avrebbe non potuto non prendere le parti dei più umili. Ma la sua era una politica a voce bassa, senza l’enfasi degli schieramenti, perché l’intenzione era sempre quella di farla diventare un’ulteriore occasione di studio, di riflessione, di ricerca.

Ma di Giovanni resta un tocco di familiarità, di uomo faber, attento ai dettagli, disponibile all’ascolto. Per lui vale proprio la massima di Bruner che compito fondamentale dell’educatore è l’arte della cortesia del dialogo, una virtù maiuetica che si accompagna alla gentilezza del gesto e della voce, ad una sottile senso di autoironia che è anche senso del limite, deliberata decisione di non mettere in difficoltà l’interlocutore anche se sai perfettamente che tu sei più competente di lui su una certa cosa, magari perché ti aspetti lo stesso “trattamento” quando sarai tu in condizioni simili.

Grazie, per tutto questo, Giovanni.