giovedì 18 febbraio 2010

Merito, professionalità, carriera

Facciamo il punto su una questione controversa

(da Rivista dell'istruzione, n. 1, gennaio-febbraio 2010)

Giancarlo Cerini

Il dibattito sulla scuola, negli ultimi mesi, è stato catalizzato quasi esclusivamente dai gravi problemi di natura finanziaria che riguardano il nostro paese e che hanno portato all’adozione di misure restrittive della spesa pubblica, con riferimento specifico anche all’istruzione. In particolare l’art. 64 del decreto legge 112/2008 (poi convertito in legge 133/2008) prevede numerosi interventi sugli ordinamenti scolastici e sul funzionamento della scuola, anche per ridurre l’impatto sui conti dello Stato. Va però detto che, a fronte dei risparmi che si otterranno nel triennio, una quota di risorse (pari al 30%) andrà riutizzato ai fini della valorizzazione della professionalità degli operatori della scuola, per premiare il merito, impostare una carriera (in particolare per gli insegnanti), insomma , per adottare misure a favore della “premialità”.
Posto che siano superati tutti gli ostacoli politici e sindacali che ancora si frappongono a tali prospettive, sembra opportuno esplorare gli aspetti culturali di un tale tema. E’ quanto cercheremo di fare in questa breve nota, in cui affronteremo i problemi di stato giuridico, carriera, formazione e valutazione, anche alla luce del progetto di legge presentato nella primavera del 2008 dall’On. Valentina Aprea, presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati..

E’ tempo di un nuovo stato giuridico

L’ultimo “stato giuridico” del personale della scuola risale al lontano 1974, poi il processo di privatizzazione del pubblico impiego ha contrattualizzato le condizioni di lavoro del personale. Sembrano maturi i tempi per una ridefinizione, al più alto livello legislativo, dei principi fondamentali della professione docente: l’autonomia culturale e professionale, i diritti e i doveri, la formazione iniziale ed in servizio (obbligatoria), le forme di collegialità e rappresentanza, le caratteristiche della professione in una prospettiva europea (reclutamento, valutazione, rapporto tempo di lavoro-didattica, articolazioni funzionali). L’eventuale delega regolamentare all’esecutivo dovrebbe però essere controbilanciata da un processo di forte condivisione delle procedure, come nel 1974, quando i decreti delegati furono elaborati, sulla base della legge di delega del 1973, da commissioni miste formate da politici, tecnici e rappresentanze sociali.
Bisognerebbe, dunque, sgombrare il campo dalla percezione che il nuovo sistema dei diritti e dei doversi dei docenti nasca solo per contenere la “presa” dei sindacati sulla categoria. Non si può smentire la storia degli ultimi 30 anni di scuola, anche se è vero che sono stati spesso caratterizzati da autoreferenzialità e veti incrociati e da un certo immobilismo. E’ il caso, ad esempio, della questione della carriera e del merito. Tema spinosissimo, come ben si ricorda negli annali recenti della scuola (vedi la vicenda del “concorsone” che portò alle dimissioni del ministro Berlinguer), che si scontra con la propensione egualitaristica degli operatori scolastici (“come potrei presentarmi di fronte ai miei allievi, dopo aver ricevuto una valutazione negativa, oppure con un profilo giudicato di minor pregio di quello del collega?”).
Il progetto Aprea, comunque, sceglie decisamente l’idea di una carriera a gradoni, stratificata in tre livelli stabili. I docenti confermati in ruolo, docenti ordinari (ma con un periodo iniziale di accompagnamento formativo più lungo e impegnativo), possono partecipare a selezioni (per soli titoli) per ottenere una qualificazione supplementare (docente esperto), che dà diritto ad un incremento retributivo. Un ulteriore step per merito comparativo, attraverso un corso-concorso, porterebbe ad una qualifica di eccellenza (docente senior), che conferisce particolari riconoscimenti giuridici ed economici. Il passaggio da un livello all’altro, su contingenti numerici definiti dal Ministero, comporterebbe un incremento retributivo di circa il 30%.
E’ evidente che tutti condividono l’esigenza di valorizzare gli impegni ed i meriti dei docenti e che un certo appiattimento delle posizioni non incentiva certamente i migliori, né attrae verso la professione docente le nuove leve più preparate e motivate. Recenti indagini, citiamo la ricerca della Fondazione Agnelli sui docenti neo-assunti, segnala una cauta disponibilità degli insegnanti a forme di valutazione del lavoro e di differenziazione dei trattamenti retribuiti. Cauta perché collegata a forme di autovalutazione interna, più che esterna; ad incentivi economici temporanei piuttosto che stabili; a benefit materiali (riduzione del tempo di cattedra, periodi sabbatici, bonus per acquisti, ecc.) piuttosto che a gerarchie stabili, seppure basate sul merito[1]. Sono caute disponibilità su cui lavorare e da non travolgere con proposte avventate.

Ci sono alternative alla carriera?

Nelle indagini sulla condizione insegnante, nelle proposte delle associazioni professionali, in alcuni primi approcci sindacali, sembrano emergere proposte alternative all’idea di carriera, forse più in sintonia con le caratteristiche del lavoro docente, in cui un elemento di qualità è legato alla capacità di fare squadra ed alla condivisione delle scelte. Sarebbe infatti difficile isolare il “valore aggiunto” apportato da un singolo docente ai risultati scolastici di un allievo o di una classe. Posto che il criterio per valutare la qualità dell’insegnamento fosse l’esito degli apprendimenti degli allievi, che dipende però da molto fattori: caratteristiche degli allievi, ambiente socio-culturale e contesto, condizioni strutturali della scuola, qualità della proposta didattica. In prima approssimazione si potrebbe collegare l’andamento retributivo ad alcune variabili oggettive che possono influire sulla qualità della proposta didattica, come ad esempio il tempo dedicato all’insegnamento. In subordine vengono indicate anche altre voci da considerare nei trattamenti accessori (es.: rientri pomeridiani, numero/numerosità classi, disagio socio-culturale, ecc.).
La variabile tempo di lavoro dovrebbe essere fortemente apprezzata, semmai prevedendo collocazioni retributiva e giuridiche (temporanee) differenziate a:
-tempo parziale (a domanda e comunque obbligatoria per chi esercita la libera professione o svolge consistenti incarichi esterni);
-tempo normale (rideterminando rapporto docenza in classe/altri impegni a scuola, in una ottica di onnicomprensività);
-tempo potenziato (che comprende una presenza a scuola full time: es., in orario antimeridiano e pomeridiano, anche per compiti di supporto organizzativo e tecnico-progettuale e che dovrebbe essere obbligatorio per chi fa parte dello staff di direzione).
Una seconda proposta, caldeggiata dalla Fondazione Agnelli, ipotizza che i riconoscimenti al merito siano dati ad imprese di squadra, meglio in grado di determinare quel valore aggiunto nell’apprendimento di cui si è alla ricerca[2]. Il lavoro di team è in sintonia con i valori professionali cui fanno riferimento molti insegnanti, soprattutto nella scuola di base.
In un’ottica sperimentale forme progressive di valutazione dovrebbero riferirsi ad azioni progettuali di carattere collegiale (es. consiglio di classe, dipartimento disciplinare, gruppi di miglioramento), con definizione preventiva di obiettivi operativi (es. livelli di apprendimento, abbassamento indici di dispersione), previa verifica anche ad opera di valutatori esterni. Spetterebbe poi al gruppo di progetto definire eventuali forme differenziate di riconoscimento economico ai membri del gruppo, per remunerare effettivi impegni e responsabilità (per compiti di coordinamento, tutoraggio, documentazione). Può apparire una soluzione di ripiego, ma sarebbe un grosso passo in avanti nella direzione del merito[3].
E’ condivisibile anche l’esigenza di preventivare benefici non solo di carattere economico diretto, ma anche con alto valore simbolico: responsabilità di progetti, funzioni di formatore, membro di staff, frequenza di stage pre-pagati, riduzione delle ore frontali, ecc.

E per il reclutamento e la formazione?

La questione della formazione iniziale dei docenti, tema decisivo per la qualificazione dell’insegnamento e della scuola, è stato stralciato dal progetto di legge, perché già oggetto di uno specifico provvedimento del governo, in virtù di una delega aperta contenuta nella legge finanziaria per il 2008[4]. A tal fine ha operato un’apposita commissione (Israel) i cui esiti sono stati in parte ricondotti all’interno di uno schema di decreto ministeriale che sta acquisendo i prescritti pareri di numerosi organismi consultivi. Si va verso il rafforzamento della componente “disciplinare” nella formazione dei docenti e la differenziazione dei percorsi sulla base del livello scolastico di insegnamento. Restano però aperti molti problemi: il quantum di pratica iniziale sul lavoro, le modalità del reclutamento, che dovrebbe avvenire per concorso (in base a quanto previsto nella legge delega), e le immense “code” dovute alla presenza di lunghe graduatorie e consuetudini di precariato.
La proposta Aprea taglia la testa al toro e propone l’assunzione diretta da parte delle scuole (o delle loro reti), attingendo –con procedure selettive pubbliche- ad un albo regionale in cui i docenti sarebbero inseriti dopo la valutazione positiva della propria formazione iniziale. E’ evidente il rischio di legare il reclutamento a scelte troppo localistiche, perdendo quella garanzia di pubblicità e imparzialità che deve accompagnare un pubblico servizio come l’insegnamento. I concorsi “locali” e le chiamate nelle Università non sempre hanno portato a selezionare i migliori.
Inoltre, l’ipotesi vede un forte sbarramento da parte dei sindacati ed anche il mondo della scuola appare assai tiepido (non oltre il 30% dei docenti favorevoli). Va comunque apprezzato il tentativo di rendere meno casuale il rapporto tra insegnanti, nomine, scuola di assegnazione. Si potrebbe immaginare un periodo di praticantato retribuito per i neo-docenti, sulla base di una graduatoria di merito e delle opzioni degli interessati su posti segnalati dalle scuole. Il periodo di formazione-lavoro dovrebbe avvenire con supporto di un tutor docente esperto. Al termine si sostiene la prova per l’accesso ai ruoli, che consente di stabilizzare il posto di ruolo e di formulare una graduatoria per l’assegnazione definitiva di sede, con preferenza per la scuola presso cui si è prestato il praticantato. Le operazioni di nomina (ruolo, incarichi, supplenze) dovrebbero mantenere un carattere pubblicistico e universale, ma vanno rigorosamente programmate e anticipate in modo da garantire stabilità del personale all’inizio dell’anno scolastico.
Tutto ciò rende indispensabile l’adozione di un organico funzionale di istituto e provinciale (per supplenze lunghe), trasformando la spesa storia per supplenza in spesa per stipendi per docenti di ruolo, con contestuale abolizione delle supplenze.

Formazione e valutazione dei docenti

La proposta di legge si sofferma sul tema della valutazione dei docenti, ma dimentica di intervenire sulla questione della formazione e dell’aggiornamento professionale. Un quid di formazione in servizio dovrebbe essere obbligatoria, sul modello della sanità, con acquisizione di crediti formativi ogni anno. Il superamento del quorum minimo di formazione obbligatoria potrebbe dare diritto ad un riconoscimento economico (secondo il modello contrattuale sperimentato anche a Trento).
La formazione dovrebbe svilupparsi all’interno dell’istituto o partecipando ad iniziative organizzate nel territorio, anche da associazioni riconosciute. La formazione è efficace se assume un carattere partecipato, di ricerca-azione, di rapporto con la didattica in classe e se favorisce la costruzione di comunità professionali (va contenuto l’esorbitare della formazione on line).
Per il sostegno della professionalità docente, in ogni provincia potrebbe essere attivato un centro risorse e servizi professionali per gli insegnanti, con compiti di supporto tecnico e professionale alle scuole e alle loro reti. L’attivazione delle nuove strutture non deve comportare l’incremento di personale, ma una sua diversa utilizzazione (ad esempio del corpo ispettivo, degli Irre, degli uffici studi), nell’ambito della riorganizzazione dell’amministrazione scolastica periferica (DPR 20 gennaio 2009, n. 17). Il modello prefigurato nell’ultimo decreto, su base regionale, sembra impoverire la possibilità di una interlocuzione dello Stato a livello provinciale, tra amministrazione, scuole, enti locali.[5]
Il sistema di valutazione dei docenti deve essere avviato solo a seguito di una sperimentazione diffusa nelle scuole, e di condivisione progressiva dei modelli valutativi. Il primo step potrebbe essere di carattere auto-valutativo. In tal senso si può incentivare la adozione di un portfolio professionale per ogni docente, per documentare il curriculum via via sviluppato[6]. Il portfolio –sulla base di quanto abbozzato dalla commissione tecnica paritetica MIUR-ARAN-OO.SS. – dà conto di crediti formativi (legati alla ricerca, alla didattica, alla formazione) e di crediti professionali (legati alle responsabilità organizzative assunte nella scuola). Le due tipologie di crediti assumerebbero (diverso) valore ai fini della assunzione di nuovi compiti a scuola o per lo sviluppo di carriera. Il sistema dei crediti sembra essere, al momento, un utile passaggio intermedio verso la valorizzazione della professionalità ed il riconoscimento del merito.

[1] Nell’indagine della Fondazione Agnelli, svolta in tre regioni italiane, il consenso per sistemi di valutazione degli insegnanti basati su standard professionali e procedure nazionali arriva al 41,2%, mentre la differenziazione in base agli impegni effettivi ed alle responsabilità organizzative trova rispettivamente il 67,8 ed il 62,9% di adesioni. Resta un 29,6 % di docenti (si tratta dei neo-assunti dell’a.s. 2007-2008) contrari a forme di differenziazione. (cfr. Fondazione Agnelli, op. cit.)
[2] “Le ragioni per cui, secondo noi, è preferibile una soluzione diversa [dalla retribuzione in base al merito dei singoli insegnanti] risiede nell’importanza dell’intero corpo docente e delle interazioni di classe (il cosiddetto peer effect) nel determinare i risultati scolastici, che trascende e in molti casi rende impossibile isolare il contributo del singolo insegnante”. V. Fondazione Giovanni Agnelli, Rapporto sulla scuola in Italia 2009, Laterza, Bari, 2009, pag. 264.
[3] Un documentato riepilogo dello stato della questione è contenuto in G.Cerini, E se cominciassimo dal portfolio per i docenti, in V.Bonmassar, IRASE T., Uil-Scuola, Sfidati dalla valutazione. Chi valuta che cosa?, Aracne, Roma, 2009.
[4] L’art. 2, comma 416 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 recita: “è definita la disciplina dei requisiti e delle modalità della formazione iniziale e dell’attività procedurale per il reclutamento del personale docente, attraverso concorsi ordinari, con cadenza biennale, nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente...”.
[5] La battuta, che ho raccolto da qualche autorevole dirigente scolastico secondo cui “si faceva più politica scolastica a livello provinciale quando c’erano i Provveditori”, sia di monito contro il rischio di un impoverimento della presenza dello Stato e dell’Amministrazione (cfr. art. 74, comma 3 del D.L. 112/2008, convertito in legge 133/2008, che prevede la riorganizzazione della rete periferica delle amministrazioni dello Stato su base regionale o in alternativa come strutture delle Prefetture, uffici territoriali del governo).
[6] Le associazioni professionali (ADI, AIMC, APS, CIDI, DIESSE, FNISM, MCE, UCIIM) firmatarie di uno specifico protocollo di intesa con l’Ufficio Scolastico Regionale per l’Emilia-Romagna, si sono poi impegnate in un’originale ricerca-azione su temi complessi quali i caratteri dell’identità docente, gli standard professionali, la valutazione e valorizzazione dell’insegnamento, il curriculum ed il portfolio come strumenti per favorire lo sviluppo professionale.
La ricerca ha cercato di offrire “visibilità” ad un curriculum possibilmente “virtuoso” del “bravo” docente, attraverso l’individuazione di uno strumento innovativo come il portfolio. Infatti, Il portfolio del docente può consentire di documentare e rendere espliciti gli eventi più significativi della biografia professionale (che è fatta di preparazione culturale iniziale, di attività di formazione in servizio, di partecipazione a ricerche, di assunzione di incarichi di responsabilità nella scuola, ecc.). Ma non solo: ciò che va “documentato” (e quindi fatto affiorare) deve essere soprattutto ciò che avviene in classe, la qualità della didattica e dell’insegnamento, con una diretta incidenza sui processi e sugli esiti di apprendimento dei ragazzi.
USR ER, Il portfolio degli insegnanti, Tecnodid, Napoli, 2005.

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