lunedì 27 dicembre 2010

STUDIARE LA COSTITUZIONE


AUSER - volontariato di Forlì e CIDI di Forlì
invitano gli insegnanti partecipanti al Progetto promosso da AUSER Forlì sullo studio della COSTITUZIONE e tutti i docenti interessati

all’incontro

“Studiare la Costituzione:
un gioco da ragazzi?”


GIOVEDI’ 13 GENNAIO 2011
Ore 16,30-19,00

Presso la SALA INCONTRI del Centro per la PACE “Annalena Tonelli”
A FORLI’ in via Andrelini 59

Conduce l’incontro ANNA SARFATTI, insegnante, FIRENZE, autrice di saggi per insegnanti e libri per ragazzi*

Nel corso dell’incontro saranno illustrate proposte operative per lo studio della Costituzione della Repubblica italiana, a partire dal progetto di ricerca AUSER che coinvolge le scuole elementari e medie del territorio forlivese. Saranno distribuiti materiali di documentazione.



Per informazioni e pre-iscrizioni è opportuni contattare gli organizzatori, presso la sede AUSER di Forlì, Viale Roma 124 – 47100 Forlì e presso il CIDI, Via Andrelini 59 – 47100 Forlì.
Referente per il progetto: Loretta LEGA 347-4045599 e-mail: loryelle@mclink.it





Anna Sarfatti, tra gli altri, è autrice dei testi:
- “Sei Stato tu?". La Costituzione attraverso le domande dei bambini, Salani ed., 2009;
- La Costituzione raccontata ai bambini, Mondadori, 2006;
- Chiama il diritto, risponde il dovere, Mondadori, 2009.

domenica 26 settembre 2010

IL TRENO DEI DESIDERI


di Paola Silimbani (Presidente del Cidi di Forlì)


IL TRENO DEI DESIDERI
La scuola è ripartita …. su di un treno in corsa CHE NON SI SA DOVE ARRIVERA’.
Il problema è che su questo treno bisogna assolutamente salire, perché l’urgenza del cambiamento non può attendere, ma tu, docente, ti senti come se ti venisse chiesto di obliterare almeno 10 biglietti per una destinazione sconosciuta con l’incubo di aver perso la tua valigia.
Perché? Si riconosce nei provvedimenti ministeriali sulla scuola superiore l’ intento di rispondere al bisogno che la scuola debba diventare più seria ( obbligo scolastico, debiti, condotta,valorizzazione delle eccellenze, cittadinanza e costituzione). Obiettivi importanti che richiamano noi docenti ad un impegno di progettazione condivisa e di pianificazione rigorosa,( una rivoluzione copernicana nella scuola superiore da sempre autoreferenziale sul piano della didattica individuale!) ma se tutto questo non è supportato da una ricerca di senso legata al nuovo contesto educativo in cui si gioca l’insegnamento – apprendimento, la riforma rischia di rimanere ancora una volta un’operazione formale e, per quanto ci riguarda, di non sapere quale direzione prendere ( …. la destinazione del treno appunto!).
L’idea del riordino, cioè di mettere ordine dunque dove ordine non c’è, non è per niente rassicurante, perché questo non prefigura necessariamente la scuola di domani. Il rischio è che ci venga richiesto una estrema fatica di mettere sulla carta la proiezione di una scuola che non intercetti la traiettoria dei veri problemi, anche se è pur vero che Lisbona e l’Europa ci attendono al capolinea per una scuola di qualità e competitiva.
Forse bisogna intenderci su che cosa intendiamo per serietà .Penso ad una scuola in grado di rispondere ai problemi che la classe ci pone ogni giorno, soprattutto agli aspetti di una relazione educativa complessa che si confronta con le nuove frontiere di un’adolescenza che spiazza , che sembra più analfabeta ma più in grado di cavarsela di noi adulti per esempio nell’uso dei nuovi linguaggi, che nasconde fragilità sconcertanti e che sente la scuola come tangente al suo cammino. Quali risposte dare poi ad una scuola di tutti, handicap e stranieri compresi ?
Nel frattempo l’anno scolastico è iniziato senza dirigenti, le reggenze su più scuole sembrano essere la risposta all’efficienza, le classi scoppiano di alunni, monitorati in quantità gli stranieri, risparmio sul sostegno, i precari sul piede di guerra (unica soluzione per protestare di noi docenti è rifiutarci di programmare gite scolastiche ); si ammucchiano le carte della burocrazia proveniente dai vari Uffici scolastici.
Ma l’aspetto più surreale del nuovo “ordine” voluto dalla riforma è l’orario: Grande trovata! “meno ore ma più approfondimento”: ore da 60 minuti e niente sconti da 50. Segnalo solo due esempi :
Chi ha messo mano nei piani orari un po’ strabici, con l’occhio attento alle classi prime non si è preoccupato di riequilibrare le risorse della distribuzione delle cattedre e delle discipline: ad esempio nelle classi seconde dell’indirizzo commerciale gli studenti hanno 7 ore di scienze?!? Per fortuna c’è la flessibilità oraria e molta creatività nella capacità organizzativa dei docenti.
Dallle 8 alle 14: non c’è uno studente del circondario che arrivi a scuola in tempo, gli autobus non riescono a soddisfare nessuna scuola , le famiglie sono arrabbiate perché spendono fior di quattrini negli abbonamenti mentre il servizio è così scadente.
Non ci resta che sperare che il treno ci porti a destinazione , basterebbe alla fine di questo anno scolastico.

mercoledì 23 giugno 2010

C'era una volta la maturità

Un' interessante riflessione del Cidi nazionale sulle tracce della prima prova scritta della maturità.

Maturità 2010, le prove di italiano
Preoccupazione e sconcerto
Alcune cose lasciano sconcertati in queste prove di maturità.
Anzitutto l’ormai definiva trasformazione di una prova nata dieci anni fa per innovare le pratiche di scrittura, irrevocabilmente ridotta a presuntuoso vaniloquio su tematiche complesse, talvolta
semplicemente inarrivabili, condotte a partire da documenti la cui scelta è governata da improbabili regole di par condicio temporale, di genere e ora anche politica. I testi proposti quest’anno per la stesura del saggio breve e dell’articolo di giornale trattano tematiche importanti e impegnative ma, ancora una volta, l’estrema eterogeneità delle fonti, la vastità e l’indeterminatezza delle collocazioni spazio-temporali e culturali ne impongono una trattazione superficiale, accostamenti impropri se non inopportuni. E’ un modo altamente diseducativo di suggerire una cultura da chiacchiera da bar o, se si preferisce, da talk show, dove ciascuno dice la sua possibilmente su argomenti importanti di cui non sa nulla. Che dire, infatti, del mettere insieme Dick, Kant e Hawking per parlare di alieni?
Anche questa è la pseudoscienza da bar, dove si discute di angeli e ufo dopo aver visto certe
trasmissioni televisive. Tipicamente “televisiva” è infatti anche la regola della par condicio che
governa da tempo la scelta degli ospiti. Il problema allora non è, come ad alcuni è parso, il tema
sulla foibe, che chiede di affrontare una pagina controversa della storia nazionale che da anni è al
centro di nuove attenzioni e di recenti normative. Se mai, in tal senso, è risibile il sospetto che a far da bilancino sia stato scelto Primo Levi per l’analisi del testo, per altro con un passo di difficile
collocazione tematica (Di che cosa parla quel testo? Qual è il suo fuoco tematico?) e vagamente
irritante in un paese dove il 43% dei giovani fra i 15 e i 29 anni (1,2 milioni) non ha letto nemmeno un libro nel corso del 2009. Ma la percentuale dei figli di laureati con libri in casa (come Levi) che hanno letto almeno un libro è di circa il 73%. Poi, a corredo, qualche domanda inevitabilmente banale non essendo un testo da “analizzare”.
Il problema vero è il discorso di Mussolini del 3 gennaio del 1925 usato come documento per
parlare del “ruolo dei giovani nella storia e nella politica” e non perché sia di Mussolini. Anche qui
in nome della par condicio sta con Togliatti, Moro e Giovanni Paolo II (“una sorta di teleologia dal
male al bene con Moro mediatore”!). Il problema è che quel discorso, una delle pagine più
agghiaccianti e tragiche della storia di questo paese, è quello con cui Mussolini assume la
responsabilità politica e morale dell’omicidio Matteotti, assolve il fascismo “passione superba della migliore gioventù italiana” e ufficialmente apre la fase di fascistizzazione dello Stato. Quel
documento implica due apologie di reato: di fascismo e di istigazione alla violenza. E’ in tale senso
e per quest’uso che è stato proposto? Allora non è proponibile perché se ne può solo parlar male,
non può essere come gli altri oggetto di trattazione dialettica. E se qualche allievo ne ha tessuto le
lodi? Se qualche allievo si è dichiarato favorevole? Quali perplessità apriranno la correzione e la
valutazione di quella prova, dichiaratamente politica. E, tra l’altro, è curioso che un Ministro che ha proibito ai docenti di parlare del governo in carica perché a scuola non si fa politica suggerisca ai giovani la trattazione di un tema così apertamente politico.
Infine un’ultima osservazione: si tratta di tracce “difficili” (soprattutto per gli studenti dei tecnici e professionali) se affrontate seriamente e contestualmente; banali se affrontate in modo superficiale: argomenti e documenti – se fossero presi sul serio- da tesi di laurea specialistica. Si tratta dell’ennesimo modo del ministro Gelmini di invitare a quella che per Lei è la serietà degli studi oppure di far capire che questa è la maturità dei licei, mentre per i tecnici e i professionali sarà il caso di pensare a qualcos’altro!?
Si tratta della definitiva conferma che ormai la scuola non è pensata a misura di allievi ma terreno per operazioni di battaglia politica e ideologica. Se n’era già avuto sentore, ma forse questa volta si è passato il segno. Infatti non sono tracce lineari e serene rivolte agli studenti, parlano alla scuola perché la politica – una certa politica di destra – intenda. Non hanno l’obiettivo di valutare la capacità espositiva, il senso critico, le conoscenze degli allievi in Italiano, hanno altri obiettivi.
Di natura simbolica: la sostanza è già in atto da tempo.
Roma, 23 giugno 2010

martedì 13 aprile 2010

CERCO ASILO...

Redazione “Scuolinfanzia” –Forlì

La convenzione del Comune di Forlì con i nidi a gestione privata della città fa discutere, trova consensi, ma suscita anche borbottii. Insomma, scalda gli animi facendo rivivere battaglie d’altri tempi, con l’affiorare di antichi steccati, quasi un ritorno a guelfi e ghibellini
Ma a Forlì non è in gioco il rapporto tra scuola pubblica e scuola privata, rapporto che qui gode di buona salute, né il fatto che le casse comunali – pur in un periodo difficile – versino contributi ai servizi educativi per l’infanzia privati (nel caso particolare ai nidi per i bambini da 0 a 3 anni, ma anche alla scuola dell’infanzia tra i 3 e i 6 anni). E’ comprensibile che chi assolve ad una funzione di pubblica utilità possa godere del sostegno pubblico “a sgravio” –come si diceva una volta – della spesa che l’ente pubblico dovrebbe accollarsi per erogare lo stesso servizio, a volte con un costo maggiore (ma poi vedremo perché).
Un classico esempio di sussidiarietà. La questione però è un’altra e riguarda le regole ed i principi da rispettare per ambire a svolgere una funzione pubblica.
La tesi dei “liberisti” è che non ci sia bisogno di troppe regole da condividere con l’ente locale, ma che ogni scuola (o nido) possa agire in totale autonomia (autarchia?), in ossequio al principio del rispetto della libertà, della propria identità, contro i lacci e lacciuoli di certo vetero-statalismo (sembra di sentire i critici della riforma Obama sulla sanità pubblica). Dunque, scuole con un proprio specifico progetto educativo, proprie regole di accesso e iscrizione (non una graduatoria pubblica), reclutamento discrezionale dei docenti…
In punta di diritto non fa una piega: se è scuola libera, sia libera fino in fondo. Tanto saranno cittadini e genitori a valutare la sua qualità ed a sceglierla in base alle proprie convinzioni ed idee educative. Giusto. Con qualche se e con qualche ma. Se tutti i cittadini adottassero questo atteggiamento nei confronti dei servizi pubblici essenziali (educazione, salute, trasporti, previdenza, assistenza, ecc.) sarebbe grande il rischio di perdere ogni sentimento di “bene comune”, di struttura pubblica, di spazi comuni di incontro e di confronto, come è nel caso della scuola e dei servizi educativi.
Se ogni singolo gruppo, di ispirazione religiosa, etnica, culturale, sociale, territoriale, preferisse ricorrere ad una scuola a propria immagine e misura, le ragioni e la spinta a costruire qualcosa insieme, un’idea di futuro comune, di solidarietà e di integrazione, sarebbero fortemente compromesse. Non impossibili, ma certamente più difficili.
Non riusciamo ad immaginare un bene comune come semplice “sommatoria” di tante identità particolari. Una convinzione che portò alla nascita della scuola pubblica con Condorcet (oltre 200 anni fa, dopo l’illuminismo e dopo le rivoluzioni liberali e democratiche). Ma non vogliamo inseguire vecchie ideologie.
Ripartiamo allora dalla nostra Costituzione, che è forse il frutto migliore di un incontro coraggioso di culture, di idealità, di ispirazioni religiose e laiche, tutte capaci di costruire un nuovo discorso pubblico, una narrazione per una nuova storia da costruire. Ma lì si dice che “la Repubblica…istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi” (art. 33). Ripartiamo anche dalla legge 62/2000 (Prodi-Berlinguer) sulla parità scolastica tra statale e non statale (parità di diritti, ma anche di doveri). In questa legge –non da tutti condivisa- il riconoscimento di una funzione pubblica del privato si accompagna alla richiesta, all’accertamento ed alla verifica di specifici requisiti, di regole, di trasparenza, pur nel rispetto delle identità, che non può però incrinare il comune richiamo ai valori costituzionali e massimamente al principio della “scuola aperta a tutti” (art. 34).
Ora, nel caso specifico della situazione che si osserva a Forlì, ci sembra che questi principi non siano pienamente rispettati. Ci riferiamo a due diversi segmenti dei servizi per l’infanzia: i nidi (0-3 anni) e le scuola dell’infanzia (3-6 anni).
Nel primo caso la domanda di “nidi” è ancora forte e ci sono liste di attesa, pur avendo Forlì una quota di servizio nettamente superiore alle medie non solo italiane, ma emiliano-romagnole ed europee. Certamente grazie all’impulso storico del Comune (copre oltre i 2/3 dell’utenza), ma anche all’intervento più recente del settore privato (in genere non-profit). Quest’ultimo sostenuto anche dalle convenzioni con il Comune. Sarebbe corretto che l’intero sistema pubblico-privato si muovesse in una logica integrata, per esempio definendo criteri comuni (e, perché no, una graduatoria coordinata) per l’accoglienza dei bambini da 0 a 3 anni, a partire dalle situazioni di reale bisogno sociale ed educativo. Un posto al nido, in molti casi, significa possibilità di lavoro per mamme e papà, sollievo al reddito, opportunità di valorizzazione e integrazione sociale. E invece no, nell’ultima convenzione stipulata, i posti “convenzionati” spettano solo ai richiedenti quelle specifiche strutture private, a prescindere da graduatorie, esigenze, bisogni. Così spenderemo fondi pubblici con il rischio di non venire incontro alle esigenze, pubblicamente accertate, di reale bisogno dei cittadini. Il nido privato o la scuola paritaria, infatti, accoglie in base alla adesione ad un progetto educativo[1]. C’è dunque un problema evidente di libertà e di “equità”.[2]
Nel secondo caso (3-6 anni) le richieste corrispondono ai servizi offerti, con qualche recente difficoltà –visto il disimpegno dello Stato verso l’espansione di un servizio che oggi è universale (ma è considerato dalle leggi ancora opzionale). A Forlì, lo Stato, il Comune, i privati, costituiscono una solida rete di scuole di qualità che fa onore alla città. Anche in questo settore sono previsti convenzioni e fondi pubblici al sistema privato. Nulla da eccepire, anche se le casse delle scuole dell’infanzia statali piangono miseria da anni e sarebbe doveroso un intervento compensativo dell’Ente locale (oltre che uno Stato meno avaro…). Ma c’è qualcosa che non funziona. E’ difficile cooordinare domanda ed offerta: ognuno fa per sé. Solo il Comune di Forlì, che accoglie il maggior numero di domande e poi le deve smistare verso altri gestori, predispone una graduatoria pubblica cittadina in grado di coniugare apprezzamento del bisogno sociale e scelta preferenziale della scuola. Le singole scuole private e le singole scuole statali, invece, raccolgono le domande dei genitori in proprio: un “fai da te” che provoca effetti ormai non più controllabili: scuole che non aprono nemmeno le iscrizioni (perché, sa, qui i posti sono prenotati da anni…) e scuole che si ritrovano oltre il 70% di bambini stranieri (magari da una parte e dall’altra della stessa strada…). Ma allora, la “scuola aperta a tutti”? L’incontro tra culture? Il dialogo sociale sul portone della scuola? Valori che danno forza ad una comunità. Pensiamoci senza egoismi di bottega o pregiudiziali, appunto, ideologiche.

Da “Suolinfanzia/Cidi”, n. 2, aprile 2010.

[1] Tra i criteri di ammissione ai nidi privati convenzionati, si legge sulla stampa locale, si fa riferimento alla precedenza per chi “ha un fratello o una sorella che già frequenta la scuola, i figli di genitori con particolari disagi oppure di coloro che lavorano o sono volontari negli enti che gestiscono il nido; poi si tiene conto del bacino di utenza e della cronologia nel presentare la richiesta”.
[2] Non è un caso, che per la parallela vicenda dei “voucher”, cioè dei contributi pubblici per la frequenza di un nido privato, la Regione Emilia-Romagna richieda di passare attraverso una unica graduatoria pubblica gestita con un bando del Comune.

sabato 20 febbraio 2010

Mail "merito" è di destra o di sinistra?

Un dossier proposto da Jaime Amaducci, Cidi di Cesena-Cesenatico (FC)

"Cos'è la democrazia? Una questione procedurale: tutti partecipano e le decisioni sono prese a maggioranza"; "il politico di sinistra: colui che è attirato dall'ideale - libertà, uguaglianza e benessere… - colui che ha dato avvio all'affermazione di una democrazia sostanziale, in cui il principio del merito deve trovare un equilibrio con quello del bisogno".
Norberto Bobbio
(dal Discorso del 1992 per il Millenario di Rivalta Bormida

http://www.lancora.com/monografie/persone/bobbio_0503.html )
[…] la distinzione fra la destra e la sinistra, per la quale l’ideale dell’eguaglianza è sempre stato la stella polare cui ha guardato e continua a guardare, è nettissima. Basta spostare lo sguardo dalla questione sociale all’interno dei singoli stati, da cui nacque la sinistra nel secolo scorso, alla questione sociale internazionale, per rendersi conto che la sinistra non solo non ha compiuto il proprio cammino ma lo ha appena cominciato.

Norberto Bobbio,
“Destra e sinistra”, Donzelli, Roma, 1995, pag. 128


Il sindacato tra conservazione e cambiamento
(Forum P.A. - 22 maggio 2007)
http://www.forumpa.it/forumpa2007/convegni/relazioni/321_bernardo_giorgio_mattarella/321_bernardo_giorgio_mattarella.htm

IL PRINCIPIO DEL MERITO IN TEORIA E IN PRATICA
di Bernardo Giorgio Mattarella
Ordinario di Diritto Amministrativo - Università degli Studi di Siena

Il mio compito è di parlare del principio del merito e anche di dare brevemente conto di una recente proposta di legge elaborata da Pietro Ichino e da me, che ha avuto un certo seguito parlamentare. Prima di parlare di questa proposta, vorrei inquadrare il tema del principio del merito come principio ordinatore dell’accesso al pubblico impiego e della progressione in carriera nel settore pubblico.
Come è stato recentemente ricordato da Sabino Cassese, il principio del merito ha origini molto nobili e tradizioni gloriose. Esso è nato in parte in Cina e in parte in alcuni paesi europei (Svezia, Prussia, Austria) tra il Settecento e l’Ottocento, si è diffuso poi grazie agli ideali illuministi in altri paesi europei e anche in Italia. Esso ha anche un affioramento costituzionale nell’articolo 97, che stabilisce che ai pubblici impieghi si accede per concorso.
Il principio del merito, però, è più di questo. Esso significa quanto meno altre due cose: che non solo l’accesso al pubblico impiego deve avvenire per concorso, ma che anche la progressione di carriera deve avvenire in base al merito; e che il posto di lavoro deve avere una certa stabilità.
Il principio del merito ha però anche grandi nemici e forti oppositori. Questo è dimostrato, per esempio, dal Memorandum sul lavoro pubblico, nel quale si ribadisce che il modo ordinario per l’accesso al pubblico impiego è il concorso. Questo è già scritto nella Costituzione, non dovrebbe essere una questione negoziabile: se si negozia su qualcosa che dovrebbe essere pacifico, che è imposto dalla Costituzione, vuol dire che c’è bisogno di difendere il principio in questione. Vorrei dunque individuare quali sono i nemici - o gli apparenti nemici - del principio del merito, individuare quali sono i suoi alleati e, sulla base di questo, illustrare la proposta di legge di cui parlavo.
I nemici del principio del merito, o i suoi apparenti nemici, sono principalmente tre: il principio democratico, il principio corporativo e il principio di eguaglianza. Come si vede non sono cattivi soggetti: sono principi altrettanto importanti e nobili e con un radicamento costituzionale forse anche maggiore rispetto al principio del merito. Perché, tuttavia, sono nemici del principio del merito o possono diventarlo?
Che il principio democratico possa entrare in tensione con il principio del merito è dimostrato ad esempio da un recente articolo di Bruce Ackerman, uno dei maggiori costituzionalisti americani. L’articolo ha un titolo significativo (Meritocrazia contro Democrazia) e fa riferimento alle riforme costituzionali del Regno Unito: Paese nel quale, con il modello Westminster, il principio democratico ha avuto la massima esplicazione, in quanto ogni potere viene ricondotto al circuito politico e al Parlamento. Nel Regno Unito, però, il principio democratico ha recentemente subito attenuazioni con l’istituzione di organi indipendenti meritocratici quali la Banca Centrale, la Corte Suprema e così via. In questo articolo Ackerman, che è un esperto di diritti umani, dice che la tutela dei diritti umani è meglio assicurata da un regime in cui la democrazia è temperata dalla meritocrazia piuttosto che da un regime in cui il principio elettivo ha la sua massima esplicazione. Quando si esaspera il principio elettivo, dunque, il principio democratico diventa nemico del principio del merito. La democrazia non è solo elezioni. Quando il principio democratico si esaurisce nel fenomeno elettivo, esso diventa un nemico del principio del merito.
Questo noi lo vediamo anche nella Costituzione, perché abbiamo sia l’articolo 95 sulla responsabilità ministeriale, che sancisce il fatto che i Ministri rispondano degli atti delle relative amministrazioni e, quindi, le controllino (che di fatto è una proiezione del principio democratico); sia l’articolo 97, sul principio di imparzialità, e l’articolo 98, che dice che i pubblici dipendenti sono al servizio esclusivo della Nazione, ovvero dei cittadini e non dei politici. Quindi sembra esservi tensione fra il principio di imparzialità, legato a quello del merito, e il principio democratico. In realtà, se intendiamo la democrazia in senso un po’ più ampio, come sovranità controllata e regolata del corpo elettorale, il contrasto svanisce e il principio del merito va pienamente d’accordo con il principio democratico. Anzi, il principio del merito consente un accesso dei cittadini alle cariche pubbliche in modo paritario ed è quindi, a sua volta, un sostegno alla democrazia.
Passiamo al secondo oppositore: il principio corporativo. Spesso noi intendiamo con un’accezione negativa l’espressione corporativismo. Però, in realtà, quella corporativa è un’idea nobile: essa ha a che fare non tanto con le corporazioni medievali, ma piuttosto con la dottrina sociale della Chiesa e con certe correnti dell’illuminismo. Ha però dato luogo anche a realizzazioni storiche ignobili, come l’ordinamento corporativo fascista di cui parlava poc’anzi il Professor De Rita e come il simile modello portoghese. La nobile idea della conciliazione tra interessi contrapposti, che è l’anima dell’idea corporativa, è infatti difficile da tradurre in pratica, rispetto alla semplicità del principio elettivo della democrazia rappresentativa. Il principio corporativo può essere un nemico del principio del merito perché esso implica la negoziazione, il confronto tra interessi contrapposti mentre il principio del merito a volte non vuole la negoziazione, il mettersi d’accordo e la rappresentanza di interessi. Il principio del merito, come nel caso dei concorsi pubblici, richiede piuttosto una valutazione oggettiva.
Il terzo nemico del principio del merito sembra essere il principio di eguaglianza. Anche questo, in realtà, è un nemico apparente: il principio del concorso, infatti, si fonda precisamente sul concetto di eguaglianza, in quanto richiede la parità di accesso alle cariche pubbliche. Tuttavia, se il principio di eguaglianza diventa egualitarismo, il principio del merito viene sacrificato. Se tutti possono accedere alle cariche pubbliche indipendentemente dai loro meriti, senza una valutazione, allora sorge il contrasto tra i due principi.
Il contrasto con ciascuna delle deviazioni di questi apparenti oppositori lo abbiamo potuto verificare negli ultimi tempi. Per quanto riguarda il contrasto tra il principio democratico e il principio del merito, il riferimento più evidente è quello alla vicenda della dirigenza e dello spoils system. Abbiamo infatti avuto meccanismi di spoils system che sono chiaramente riconducibili all’invadenza del principio democratico o elettivo; l’esigenza di imparzialità ha anche recentemente indotto la Corte costituzionale a limitare questa ingerenza. In realtà, lo spoils system non è presente soltanto nella vicenda della dirigenza, ma è a volte nascosto nelle leggi finanziarie e in altre leggi. Quando si sopprime un organismo per poi ricostituirlo quasi subito uguale, infatti, normalmente questa operazione serve a liberarsi di quelli che in quel momento occupavano quell’organismo.
Il contrasto tra il principio del merito ed il principio corporativo emerge invece tutte le volte che si negozia su qualcosa che non dovrebbe essere negoziabile. Ciò avviene, per esempio, tutte le volte che la contrattazione collettiva invade il terreno che dovrebbe essere riservato alla legge o alle determinazioni unilaterali dell’amministrazione. Anche nel Memorandum che ho menzionato prima la contrattazione collettiva invade il terreno delle direttive, che dovrebbe invece essere lasciato all’amministrazione. Questo contrasto emergeva quando delle commissioni di concorso facevano parte rappresentanti sindacali e, quindi, venivano rappresentati gli interessi invece di valutare i meriti; esso continua ad emergere quando i bandi dei concorsi vengono fatti sulla base di accordi collettivi e vengono di fatto negoziati.
Un esempio del contrasto tra il principio del merito ed il principio di eguaglianza, poi, si ha con la vicenda della stabilizzazione dei precari. In questo ampio calderone vengono infatti messe insieme situazioni molto diverse: sia vincitori di concorso, che indubbiamente meritano di prendere servizio, che soggetti che non sono mai stati reclutati con un concorso, ma sulla base di affiliazione politica. In questo ultimo caso la stabilizzazione aggiunge ingiustizia ad ingiustizia, perché coloro che non hanno potuto accedere ai pubblici impieghi continuano a rimanerne fuori in quanto i posti vengono riservati a coloro che sono stati reclutati in quell’altro modo. L’egualitarismo si pone in contrasto con il principio del merito anche in altre ipotesi: per esempio, quando le indennità di risultato vengono distribuite a tutti, “a pioggia”, e non soltanto ai più meritevoli.
Come si vede, gli oppositori del principio di merito sono le distorsioni di alcuni principi costituzionali. Per fortuna, però, ci sono anche gli alleati. In primo luogo, il principio della valutazione dei risultati. Esso è, in realtà, il nucleo essenziale del principio del concorso, che è nella Costituzione; ma il principio di valutazione dovrebbe informare di sé anche lo svolgimento delle carriere dei dipendenti pubblici e, quindi, dovrebbe essere utilizzato anche ai fini degli avanzamenti, delle retribuzioni e così via. Il principio della valutazione dei rendimenti si basa naturalmente sul principio costituzionale del buon andamento ed è per qualche aspetto rafforzato dalla privatizzazione del lavoro pubblico. La privatizzazione, infatti, opera in modi diversi rispetto al principio del merito: in questo caso lo rafforza, perché il ricorso alla valutazione, come strumento di gestione delle carriere, è comune nel settore privato.
Un secondo alleato del principio del merito è il principio del contraddittorio, che è uno dei principi universali del diritto amministrativo. Esso è il principio in base al quale, prima di adottare una decisione che riguarda un certo soggetto, bisogna ascoltare il soggetto stesso. Il principio del contraddittorio, che è un aspetto di quelle che Constant chiamava le libertà dei moderni, è un principio il cui legame con il principio del merito è mostrato proprio dalle recenti sentenze n. 103 e n. 104 della Corte costituzionale, nelle quali la Corte ha detto che, prima di liberarsi di un dirigente, bisogna contestargli gli addebiti, ovvero c’è bisogno di un procedimento che si basi sul principio del contraddittorio.
Un terzo alleato importante (o un corollario del principio del merito) è il principio di trasparenza: le valutazioni fatte nei concorsi e nel corso delle carriere hanno poco senso e sono poco credibili se non sono pubbliche e trasparenti. Purtroppo, però, nel nostro ordinamento di trasparenza amministrativa ce ne è ben poca. Abbiamo una legge sulla trasparenza amministrativa ma questa legge è molto restrittiva, è applicata in modo ancora più restrittivo ed è molto arretrata rispetto alle leggi che negli ultimi dieci o quindici anni sono state approvate e sono entrate in vigore in moltissimi paesi occidentali e non solo.
Una volta descritto questo intreccio di principi, su cui si basa il principio del merito, vorrei parlare un po’ della proposta elaborata da un gruppo di persone coordinato da Pietro Ichino e da me nei mesi scorsi, che trae origine dal dibattito che era stato avviato da Ichino con i suoi articoli sul Corriere della sera sui fannulloni, sui licenziamenti ecc. La nostra proposta, in realtà, con i fannulloni ed i licenziamenti ha poco a che fare: essa consiste nel completamento di un sistema di valutazione degli uffici e dei dipendenti pubblici, che nel nostro ordinamento è largamente insoddisfacente. Essa muove dall’osservazione di una serie di deficit nel nostro ordinamento, ai quali accenno brevemente.
In primo luogo, c’è un difetto di controllo: un’inadeguatezza del sistema dei controlli interni. Gli uffici di controllo interno spesso non esistono e, se esistono, nella maggior parte dei casi sono strutture nominali che non sanno come lavorare e sono poco attive. C’è dunque bisogno di un organismo che stimoli l’attuazione della legge: va infatti ancora attuato il sistema di controlli previsto dalle norme emanate a partire dal 1999. A questo scopo noi ipotizziamo la costituzione di un soggetto indipendente (autorità, agenzia o commissione che sia) che abbia, fra i suoi compiti, quello di stimolare l’attuazione della legge sotto questo profilo.
C’è anche un difetto di valutazione: difetto non solo di attuazione della legge, ma proprio di essa. Le norme sono, infatti, ampiamente insoddisfacenti, in primo luogo perché prevedono la valutazione degli uffici ma non prevedono la valutazione dei singoli, che invece spesso va fatta. Qui per esemplificare parto da me stesso, dalla categoria dei professori universitari: alla fine del mio corso, gli studenti compilano questionari in cui dicono se sono o non sono soddisfatti, danno voti sulla puntualità a lezione, sull’approfondimento, sulla chiarezza e sull’adeguatezza dei libri di testo. Vengono poi fatte delle statistiche sulla base di questi questionari e l’unico rilievo che esse hanno è la mia soddisfazione o insoddisfazione personale. queste statistiche le vedo solo io e - forse - il preside della mia Facoltà; esse non incidono minimamente né sulla mia carriera, né sulla mia retribuzione, né sull’attribuzione di fondi di ricerca. A cominciare dai professori universitari - ma non solo per loro - c’è dunque bisogno di migliore valutazione.
In terzo luogo, c’è un difetto di indipendenza dei soggetti che fanno la valutazione. Coloro che svolgono i controlli interni spesso sono nominati dai vertici politici delle amministrazioni e rispondono soltanto ad essi. Di questo ho avuto una drammatica conferma ieri, leggendo il giornale, per quanto riguarda i servizi di controllo interno nelle regioni. Questo assoggettamento degli organi di controllo ai vertici politici - messo insieme allo spoils system che ci è stato somministrato negli ultimi anni - significa che non c’è quella distinzione di interessi tra controllati e controllanti, che dovrebbe essere alla base dei sistemi di controllo. A questo noi proponiamo di rimediare attribuendo a questo soggetto indipendente il compito di informare quelli che poi sono i veri padroni delle pubbliche amministrazioni, cioè i cittadini. I controlli, dunque, dovrebbero essere trasparenti e i risultati dell’azione di controllo dovrebbero essere resi pubblici. Per gli studiosi italiani, infatti, oggi è più facile accedere alle relazioni fatte dagli organi di controllo dell’amministrazione californiana, inglese o svedese che alle relazioni degli organi di controllo fatte dalle amministrazioni italiane, semplicemente perché i primi stanno nei siti internet, mentre i secondi sono custoditi in qualche cassetto.
Qui c’è un problema generale di trasparenza amministrativa: essa nel nostro ordinamento è sacrificata, la riservatezza riceve una tutela sproporzionata e, in particolare, in materia di controlli di trasparenza ce n’è poca. Per questo noi ipotizziamo che questa autorità o commissione indipendente, oltre a stimolare lo svolgimento dei controlli, oltre a fornire criteri, a spiegare e a dare indicazioni su come i controlli vanno fatti, oltre a mostrare e a rendere pubbliche le migliori pratiche a livello nazionale ed internazionale, debba svolgere anche questa funzione di “megafono”. Essa dovrebbe, cioè, organizzare public reviews, incontri annuali nel corso dei quali verrebbero discussi i risultati dei controlli e delle valutazioni insieme ai rappresentanti dei lavoratori, degli utenti e così via.
Infine, nel nostro ordinamento c’è un difetto di merito, che è il risultato di tutto quello che ho detto prima. L’accesso alla pubblica amministrazione spesso avviene senza concorso o con modalità che somigliano timidamente a un concorso; il difetto di merito esiste anche nelle progressioni di carriera e nelle retribuzioni; esso è dovuto a vari fattori. Nella nostra proposta di legge noi abbiamo ipotizzato di introdurre una serie di correttivi relativi alla struttura delle retribuzioni, ai poteri dei vari servizi di controllo interno e ai poteri di indirizzo di questa autorità o commissione. Si tratta di correttivi che dovrebbero introdurre un po’ più di merito nel nostro ordinamento.
L’approccio di questa proposta non è quello di stravolgere l’esistente, non è quello di modificare radicalmente il sistema dei controlli delineato dalle norme vigenti, ma è quello di introdurre qualche correttivo e di completare il sistema che già esiste. Non si vogliono rivoluzionare i controlli interni, ma li si vuole completare; non si vuole rivoluzionare la responsabilità dei dirigenti e dei dipendenti pubblici, ma anche in materia di responsabilità disciplinare, dirigenziale ed erariale ci sono una serie di norme un po’ specifiche che servono a far funzionare meglio le singole forme di responsabilità, a cominciare da quella disciplinare; non si vuole modificare il rapporto tra legge e contrattazione collettiva, ma si vuole introdurre qualche paletto e qualche limite agli sconfinamenti di quest’ultima.
Questa proposta di legge ha dato luogo ad un intenso dibattito, che avete potuto seguire anche sui giornali, e questo è un fatto positivo perché l’obiettivo fondamentale di Ichino e mio era proprio quello di far discutere su questo tema. La proposta è stata presentata alla Camera dei deputati e al Senato e il Ministro Nicolais si è detto favorevole, entro certi limiti, a fare propri alcuni dei suoi contenuti. Questo è lo stato dell’arte, vedremo quello che succederà. Grazie.

mercoledì, 3 dicembre 2008
MA IL MERITO È DI DESTRA O DI SINISTRA?
http://avanzi-avanzi-avanzi.blog.kataweb.it/2008/12/03/ma-il-merito-e-di-destra-o-di-sinistra/

Uno direbbe: di destra, perché il merito viene agitato come una clava da quelli di destra contro quelli di sinistra, accusati di non voler premiare il merito, perché fissati con i miti sessantottini dell’egualitarismo o, peggio ancora, prigionieri dei corporativismi sindacali. Da un altro punto di vista, ma all’interno della stessa logica, il fatto che il merito sia citato nello statuto del partito democratico dimostrerebbe, secondo alcuni, quanto il PD sia ormai succube di una cultura “centrista”.

Ma promuovere i capaci e meritevoli (come si esprime la nostra gloriosa Costituzione, all’art. 34) indipendentemente dalla classe sociale di nascita e dai privilegi che ne derivano, è una tipica missione della sinistra, sinistra che in questo caso raccoglie una bandiera della borghesia illuminata.

Certo, prima sarebbe meglio chiarire che cos’è sinistra e destra.

Connaturale alla sinistra, sosteneva Norberto Bobbio, è proporsi come obiettivo l’uguaglianza, o almeno, realisticamente, una maggiore uguaglianza. La destra è invece più disposta a convivere con la disuguaglianza, senza sentirsene troppo turbata. Infatti la grande disuguaglianza esistente dentro la società italiana, ai massimi livelli del mondo occidentale, come attesta la recente ricerca dell’OCSE, dimostra fino a che punto in Italia ha vinto la destra.

Il merito è “di destra”, quando per premiarlo si vogliono aumentare le differenze. Però c’è differenza e differenza: quelle che derivano dalla nascita, dal far parte di una rete di conoscenze (che in sè non è negativo, ma lo diventa quando i “conoscenti” si alleano per escludere quelli che non appartengono alla rete stessa), infine le differenze (più accettabili) che derivano - appunto - dal riconoscimento del merito.
Tuttavia, a mio parere, l’esistenza di differenze non garantisce affatto il riconoscimento del merito. Per esempio, fra docenti di scuola media superiore non vi sono differenze di status, retribuzione ecc., all’università invece sì. Quindi l’università dovrebbe essere in grado di offrire di più ai più bravi, ma se così fosse, non staremmo a lamentare scandali ed ingiustizie. Quindi non basta “moltiplicare gli scalini” per premiare i meritevoli. Ma finché gli scalini ci sono, deve salirli solo chi ha meriti e competenze, se si vuole che la società funzioni.

In una società puramente utopica, uno potrebbe essere motivato ad impegnarsi non dall’aspettativa di una ricompensa, ma semplicemente dal piacere di fare un bel lavoro, dal desiderio di migliorare la società, da motivazioni ideali che, in misura maggiore o minore, abbiamo tutti (non siamo solo animali economici). Ma quando le ricompense vanno a chi non le merita, allora anche l’idealista bravo, a meno che non sia proprio un eroe, depone ogni speranza ed torna a coltivare il proprio giardino, come - non a caso - fanno ormai tantissimi.

Con grande danno per l’intera società, che viene privata del contributo dei “migliori”.

Dobbiamo occuparci anche del numero degli scalini (l’uguaglianza), possibilmente riducendoli, ma intanto dobbiamo decidere chi ha il diritto di salirli. Sono due questioni un po’ diverse. Ma la sinistra deve avere in agenda anche la prima.

Insomma, c’è un merito per “escludere” e un merito per “includere”, uno per ampliare le differenze o uno per ricucirle. Il primo è di destra e il secondo di sinistra, e scusate la grossolanità.

17 Febbraio 2010
IL MERITO DEVE UNIRE NON DIVIDERE LE COMUNITÀ
di Giovanni Bazoli
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/dossier/Italia/2009/commenti-sole-24-ore/17-febbraio-2010/bazoli-merito-deve-unire.shtml

Fonte Il Sole 24 ore

Elemento cardine di ogni sistema democratico è il principio dell’uguaglianza: da intendere, ovviamente, non come presupposto, bensì come scopo da perseguire.

Come ha scritto Norberto Bobbio, non è che gli uomini siano uguali. L’uguaglianza è un punto d’arrivo: è un dovere da compiere.

Ma a questo punto c’è da chiedersi se il compito di perseguire l’uguaglianza - che rappresenta, come appena detto, il fine ultimo e la stessa ragion d’essere della democrazia - spetti esclusivamente alla sfera politica o anche a quella economica. E, conseguentemente, se le regole riguardanti l’attività economica debbano servire solo ad assicurare la libertà, la concorrenza e l’efficienza, o anche a soddisfare le ragioni dell’equità e della giustizia.
È intorno a questo cruciale quesito che si impone un profondo ripensamento del sistema economico di mercato. La libertà di iniziativa economica, come il diritto di proprietà, appartiene alla sfera dei diritti inviolabili della persona umana. Ma il primato della libertà sull’uguaglianza non può essere assoluto, neppure nell’ambito economico. Si profila altrimenti, come inevitabile, quella deriva utilitaristica, orientata alla ricerca esclusiva del profitto e dell’arricchimento individuale o aziendale, che nessun intervento successivo può essere in grado di riequilibrare.
Il grande problema che le regole dell’economia devono risolvere è dunque quello di contemperare la tutela della libertà con quella dell’uguaglianza. Si tratta di una condizione imprescindibile perché si instauri davvero una “democrazia economica”. Nuove regole sono necessarie. Ma, a parte la considerazione che nell’economia globalizzata nuove regole esigono assolutamente nuovi modelli di “governance globale”, la correzione dei difetti e delle distorsioni del capitalismo, evidenziati dalla crisi che stiamo vivendo, non può esaurirsi in una questione di regole, perché queste ultime rimandano necessariamente a una nuova antropologia. La grande sfida da affrontare è quella di superare la supposta neutralità dell’economia.
[…] Alla base del sistema capitalistico cha ha dominato la scena negli ultimi decenni si trova l’assunto teorico che ogni uomo, quando opera come homo oeconomicus, è legittimato, nello spazio di libertà riconosciutogli dalle norme giuridiche, a perseguire obiettivi egoistici (ossia il massimo guadagno e profitto); mentre deve perseguire l’interesse generale solo quando agisce come cittadino e concorre, come tale, alla formazione di quelle norme. Questa tesi ammette come normale una dicotomia tra homo oeconomicus e homo politicus che risulta in evidente contraddizione con l’inscindibilità della persona umana e la necessaria coerenza e continuità della sua ispirazione morale, che non può venir meno nel momento dell’agire economico. L’integralità dell’uomo rappresenta il nucleo primario su cui deve fondarsi una nuova concezione del rapporto tra economia e società.
La necessaria coerenza di ispirazione morale nella condotta degli uomini è l’elemento che induce a ricercare un aspetto di continuità, invece della discontinuità e della frattura che viene solitamente ravvisata, tra comportamenti che giuridicamente sono definiti come leciti (diritti) e altri che sono definiti come doverosi (obblighi).
Del resto, va considerato che l’adozione di nuove regole, mentre da un lato può risultare insufficiente, d’altro lato ha sempre come costo la riduzione degli spazi di libertà. Parallelamente all’adozione di nuove regole, occorre dunque che l’operatore avverta, nell’esercizio della libertà e dei diritti che gli competono, la propria responsabilità di “cittadino”, cioè di membro e protagonista della comunità democratica. Sotto questo profilo si manifesta come decisivo il ruolo rappresentato dal senso di “responsabilità sociale” dell’imprenditore. La realizzazione dell’interesse particolare (personale o aziendale) va coniugata con quella dell’interesse generale. In altre parole, l’interesse generale - che può essere definito “bene comune” - dev’essere sempre l’orizzonte in cui si collocano le scelte che gli uomini d’impresa compiono anche nella sfera di libertà individuale che è loro riconosciuta.
Qui entra in gioco l’ethos religioso. Il linguaggio religioso ha infatti la capacità di custodire ed esprimere delle “ragioni” che il discorso pubblico non può ignorare. In uno Stato liberal-democratico è giusto “che i cittadini secolarizzati partecipino agli sforzi per tradurre rilevanti contributi dal linguaggio religioso in un linguaggio pubblicamente accessibile”.
Ed è proprio a questo proposito, cioè nell’ambito di una riflessione su quelle che sono le radici culturali e religiose del sistema liberale e capitalistico, che si pone, a mio avviso, un ultimo interrogativo. Il capitalismo, com’è ampiamente noto, ha trovato il suo humus nella Riforma protestante, nell’idea della ricchezza come grazia, ossia nell’idea che i doni e i talenti naturali riconosciuti agli uomini e la loro fortuna, il loro successo temporale, siano un segno della benedizione divina, un premio.
Ma è forse giunto il momento di chiedersi se sia giusto che il sistema economico di mercato continui a ispirarsi prevalentemente a questo ethos di stampo calvinista e weberiano.
Certamente l’ipotesi di un’economia affrancata dall’egoismo risulterebbe astratta e utopica, perché la motivazione dell’agire economico è sempre data dall’interesse individuale al miglioramento delle proprie condizioni di vita, cioè al proprio arricchimento. La storia dimostra che i sistemi economici che mortificano l’incentivazione personale sono destinati a fallire. E d’altronde nessuno può negare che si tratti di tendenze e aspirazioni individuali che sono scritte nel Dna umano. Come nessuno può dubitare che la meritocrazia sia un principio da valorizzare in ogni organizzazione sociale e che la concorrenza sia una procedura utile e insostituibile al fine di selezionare le persone e le produzioni migliori.
È proprio su questi punti, tuttavia, che mi pare necessario aprire una nuova e spregiudicata riflessione. Siamo certi che una concezione etica dell’economia che assolutizzi il primato del merito ed esalti la competizione al fine di selezionare i più bravi e i più forti sia aderente ai principi evangelici? Non è forse vero che un sistema improntato a questa logica comporta ineluttabilmente una radicalizzazione, anziché una mitigazione, delle disuguaglianze economiche e sociali? E non è altresì vero che alcuni degli aspetti degenerativi del sistema sono derivati dalla condotta di manager di primissimo piano, disposti anche a forzare i risultati aziendali al fine di percepire compensi e premi smisurati?
Ripeto: il merito rappresenta certamente un fattore imprescindibile di promozione della comunità civile: un valore da contrapporre al disvalore dell’assistenzialismo. Purché il sistema non sia costruito attorno all’idea che i più bravi, i più forti, i più capaci meritino di essere premiati illimitatamente. È altrettanto certo che la concorrenza e la ricerca di efficienza sono regole inderogabili da seguire per la crescita economica e civile della società. Purché non diventino il metro adottato per valutare ogni attività umana.
A questo riguardo sarebbe opportuna una riflessione preliminare sul significato e l’applicazione che l’idea di merito e di concorrenza ha trovato nell’ambito economico. È il caso infatti di chiedersi se il merito nella conduzione delle aziende debba continuare ad essere misurato secondo i criteri correnti, teorizzati nelle scuole di formazione manageriale e ispirati al postulato (di derivazione smithiana) che la soddisfazione di utilità particolari (come le forti incentivazioni personali per i manager e il massimo profitto e il continuo incremento di valore per gli azionisti) si traduca automaticamente in una crescita del benessere dell’intera collettività. Nella valutazione della professionalità dei manager e dell’” eccellenza” delle aziende sembra evidente che dovrebbe trovare maggior peso la capacità di “farsi carico” - secondo un’esigenza esplicitamente richiamata anche dall’ultima enciclica - degli interessi “di tutte le categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa” e, in ultima istanza, dell’intera “comunità di riferimento”. E così pure, per quanto riguarda la concorrenza, non si può fare a meno di osservare come la concezione genuina di un pluralismo di operatori - utile, anzi indispensabile, al fine di migliorare la qualità dei servizi e dei prodotti offerti al mercato - sia oggi sopraffatta dalla prassi di una competizione volta all’eliminazione dei concorrenti, a malapena controllata dalla legge.
Il problema è dunque quello dei correttivi da introdurre, per evitare che il primato del merito e il principio del confronto competitivo finiscano per legittimare una radicalizzazione delle disuguaglianze.
Il diritto di far valere i propri talenti deve accompagnarsi anche in ambito economico a inderogabili doveri di solidarietà. Ciò comporta il rifiuto di una logica puramente funzionale che porta a considerare l’impresa come finalizzata a creare profitti nell’interesse esclusivo degli azionisti e dei manager, senza farsi carico degli interessi generali della comunità in cui opera. La verità è che l’obiettivo della crescita della ricchezza e del benessere non può essere disgiunto da quello della riduzione delle disuguaglianze. L’attuazione di questo principio, che deve ispirare sia la definizione delle regole sia i comportamenti dei singoli operatori, rappresenta la grande sfida che attende il sistema economico e sociale del prossimo futuro.
Giovanni Bazoli

Il testo del presidente di Banca-Intesa è tratto dal saggio Chiesa e capitalismo, edito da Morcelliana, in uscita nei prossimi giorni

giovedì 18 febbraio 2010

Merito, professionalità, carriera

Facciamo il punto su una questione controversa

(da Rivista dell'istruzione, n. 1, gennaio-febbraio 2010)

Giancarlo Cerini

Il dibattito sulla scuola, negli ultimi mesi, è stato catalizzato quasi esclusivamente dai gravi problemi di natura finanziaria che riguardano il nostro paese e che hanno portato all’adozione di misure restrittive della spesa pubblica, con riferimento specifico anche all’istruzione. In particolare l’art. 64 del decreto legge 112/2008 (poi convertito in legge 133/2008) prevede numerosi interventi sugli ordinamenti scolastici e sul funzionamento della scuola, anche per ridurre l’impatto sui conti dello Stato. Va però detto che, a fronte dei risparmi che si otterranno nel triennio, una quota di risorse (pari al 30%) andrà riutizzato ai fini della valorizzazione della professionalità degli operatori della scuola, per premiare il merito, impostare una carriera (in particolare per gli insegnanti), insomma , per adottare misure a favore della “premialità”.
Posto che siano superati tutti gli ostacoli politici e sindacali che ancora si frappongono a tali prospettive, sembra opportuno esplorare gli aspetti culturali di un tale tema. E’ quanto cercheremo di fare in questa breve nota, in cui affronteremo i problemi di stato giuridico, carriera, formazione e valutazione, anche alla luce del progetto di legge presentato nella primavera del 2008 dall’On. Valentina Aprea, presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati..

E’ tempo di un nuovo stato giuridico

L’ultimo “stato giuridico” del personale della scuola risale al lontano 1974, poi il processo di privatizzazione del pubblico impiego ha contrattualizzato le condizioni di lavoro del personale. Sembrano maturi i tempi per una ridefinizione, al più alto livello legislativo, dei principi fondamentali della professione docente: l’autonomia culturale e professionale, i diritti e i doveri, la formazione iniziale ed in servizio (obbligatoria), le forme di collegialità e rappresentanza, le caratteristiche della professione in una prospettiva europea (reclutamento, valutazione, rapporto tempo di lavoro-didattica, articolazioni funzionali). L’eventuale delega regolamentare all’esecutivo dovrebbe però essere controbilanciata da un processo di forte condivisione delle procedure, come nel 1974, quando i decreti delegati furono elaborati, sulla base della legge di delega del 1973, da commissioni miste formate da politici, tecnici e rappresentanze sociali.
Bisognerebbe, dunque, sgombrare il campo dalla percezione che il nuovo sistema dei diritti e dei doversi dei docenti nasca solo per contenere la “presa” dei sindacati sulla categoria. Non si può smentire la storia degli ultimi 30 anni di scuola, anche se è vero che sono stati spesso caratterizzati da autoreferenzialità e veti incrociati e da un certo immobilismo. E’ il caso, ad esempio, della questione della carriera e del merito. Tema spinosissimo, come ben si ricorda negli annali recenti della scuola (vedi la vicenda del “concorsone” che portò alle dimissioni del ministro Berlinguer), che si scontra con la propensione egualitaristica degli operatori scolastici (“come potrei presentarmi di fronte ai miei allievi, dopo aver ricevuto una valutazione negativa, oppure con un profilo giudicato di minor pregio di quello del collega?”).
Il progetto Aprea, comunque, sceglie decisamente l’idea di una carriera a gradoni, stratificata in tre livelli stabili. I docenti confermati in ruolo, docenti ordinari (ma con un periodo iniziale di accompagnamento formativo più lungo e impegnativo), possono partecipare a selezioni (per soli titoli) per ottenere una qualificazione supplementare (docente esperto), che dà diritto ad un incremento retributivo. Un ulteriore step per merito comparativo, attraverso un corso-concorso, porterebbe ad una qualifica di eccellenza (docente senior), che conferisce particolari riconoscimenti giuridici ed economici. Il passaggio da un livello all’altro, su contingenti numerici definiti dal Ministero, comporterebbe un incremento retributivo di circa il 30%.
E’ evidente che tutti condividono l’esigenza di valorizzare gli impegni ed i meriti dei docenti e che un certo appiattimento delle posizioni non incentiva certamente i migliori, né attrae verso la professione docente le nuove leve più preparate e motivate. Recenti indagini, citiamo la ricerca della Fondazione Agnelli sui docenti neo-assunti, segnala una cauta disponibilità degli insegnanti a forme di valutazione del lavoro e di differenziazione dei trattamenti retribuiti. Cauta perché collegata a forme di autovalutazione interna, più che esterna; ad incentivi economici temporanei piuttosto che stabili; a benefit materiali (riduzione del tempo di cattedra, periodi sabbatici, bonus per acquisti, ecc.) piuttosto che a gerarchie stabili, seppure basate sul merito[1]. Sono caute disponibilità su cui lavorare e da non travolgere con proposte avventate.

Ci sono alternative alla carriera?

Nelle indagini sulla condizione insegnante, nelle proposte delle associazioni professionali, in alcuni primi approcci sindacali, sembrano emergere proposte alternative all’idea di carriera, forse più in sintonia con le caratteristiche del lavoro docente, in cui un elemento di qualità è legato alla capacità di fare squadra ed alla condivisione delle scelte. Sarebbe infatti difficile isolare il “valore aggiunto” apportato da un singolo docente ai risultati scolastici di un allievo o di una classe. Posto che il criterio per valutare la qualità dell’insegnamento fosse l’esito degli apprendimenti degli allievi, che dipende però da molto fattori: caratteristiche degli allievi, ambiente socio-culturale e contesto, condizioni strutturali della scuola, qualità della proposta didattica. In prima approssimazione si potrebbe collegare l’andamento retributivo ad alcune variabili oggettive che possono influire sulla qualità della proposta didattica, come ad esempio il tempo dedicato all’insegnamento. In subordine vengono indicate anche altre voci da considerare nei trattamenti accessori (es.: rientri pomeridiani, numero/numerosità classi, disagio socio-culturale, ecc.).
La variabile tempo di lavoro dovrebbe essere fortemente apprezzata, semmai prevedendo collocazioni retributiva e giuridiche (temporanee) differenziate a:
-tempo parziale (a domanda e comunque obbligatoria per chi esercita la libera professione o svolge consistenti incarichi esterni);
-tempo normale (rideterminando rapporto docenza in classe/altri impegni a scuola, in una ottica di onnicomprensività);
-tempo potenziato (che comprende una presenza a scuola full time: es., in orario antimeridiano e pomeridiano, anche per compiti di supporto organizzativo e tecnico-progettuale e che dovrebbe essere obbligatorio per chi fa parte dello staff di direzione).
Una seconda proposta, caldeggiata dalla Fondazione Agnelli, ipotizza che i riconoscimenti al merito siano dati ad imprese di squadra, meglio in grado di determinare quel valore aggiunto nell’apprendimento di cui si è alla ricerca[2]. Il lavoro di team è in sintonia con i valori professionali cui fanno riferimento molti insegnanti, soprattutto nella scuola di base.
In un’ottica sperimentale forme progressive di valutazione dovrebbero riferirsi ad azioni progettuali di carattere collegiale (es. consiglio di classe, dipartimento disciplinare, gruppi di miglioramento), con definizione preventiva di obiettivi operativi (es. livelli di apprendimento, abbassamento indici di dispersione), previa verifica anche ad opera di valutatori esterni. Spetterebbe poi al gruppo di progetto definire eventuali forme differenziate di riconoscimento economico ai membri del gruppo, per remunerare effettivi impegni e responsabilità (per compiti di coordinamento, tutoraggio, documentazione). Può apparire una soluzione di ripiego, ma sarebbe un grosso passo in avanti nella direzione del merito[3].
E’ condivisibile anche l’esigenza di preventivare benefici non solo di carattere economico diretto, ma anche con alto valore simbolico: responsabilità di progetti, funzioni di formatore, membro di staff, frequenza di stage pre-pagati, riduzione delle ore frontali, ecc.

E per il reclutamento e la formazione?

La questione della formazione iniziale dei docenti, tema decisivo per la qualificazione dell’insegnamento e della scuola, è stato stralciato dal progetto di legge, perché già oggetto di uno specifico provvedimento del governo, in virtù di una delega aperta contenuta nella legge finanziaria per il 2008[4]. A tal fine ha operato un’apposita commissione (Israel) i cui esiti sono stati in parte ricondotti all’interno di uno schema di decreto ministeriale che sta acquisendo i prescritti pareri di numerosi organismi consultivi. Si va verso il rafforzamento della componente “disciplinare” nella formazione dei docenti e la differenziazione dei percorsi sulla base del livello scolastico di insegnamento. Restano però aperti molti problemi: il quantum di pratica iniziale sul lavoro, le modalità del reclutamento, che dovrebbe avvenire per concorso (in base a quanto previsto nella legge delega), e le immense “code” dovute alla presenza di lunghe graduatorie e consuetudini di precariato.
La proposta Aprea taglia la testa al toro e propone l’assunzione diretta da parte delle scuole (o delle loro reti), attingendo –con procedure selettive pubbliche- ad un albo regionale in cui i docenti sarebbero inseriti dopo la valutazione positiva della propria formazione iniziale. E’ evidente il rischio di legare il reclutamento a scelte troppo localistiche, perdendo quella garanzia di pubblicità e imparzialità che deve accompagnare un pubblico servizio come l’insegnamento. I concorsi “locali” e le chiamate nelle Università non sempre hanno portato a selezionare i migliori.
Inoltre, l’ipotesi vede un forte sbarramento da parte dei sindacati ed anche il mondo della scuola appare assai tiepido (non oltre il 30% dei docenti favorevoli). Va comunque apprezzato il tentativo di rendere meno casuale il rapporto tra insegnanti, nomine, scuola di assegnazione. Si potrebbe immaginare un periodo di praticantato retribuito per i neo-docenti, sulla base di una graduatoria di merito e delle opzioni degli interessati su posti segnalati dalle scuole. Il periodo di formazione-lavoro dovrebbe avvenire con supporto di un tutor docente esperto. Al termine si sostiene la prova per l’accesso ai ruoli, che consente di stabilizzare il posto di ruolo e di formulare una graduatoria per l’assegnazione definitiva di sede, con preferenza per la scuola presso cui si è prestato il praticantato. Le operazioni di nomina (ruolo, incarichi, supplenze) dovrebbero mantenere un carattere pubblicistico e universale, ma vanno rigorosamente programmate e anticipate in modo da garantire stabilità del personale all’inizio dell’anno scolastico.
Tutto ciò rende indispensabile l’adozione di un organico funzionale di istituto e provinciale (per supplenze lunghe), trasformando la spesa storia per supplenza in spesa per stipendi per docenti di ruolo, con contestuale abolizione delle supplenze.

Formazione e valutazione dei docenti

La proposta di legge si sofferma sul tema della valutazione dei docenti, ma dimentica di intervenire sulla questione della formazione e dell’aggiornamento professionale. Un quid di formazione in servizio dovrebbe essere obbligatoria, sul modello della sanità, con acquisizione di crediti formativi ogni anno. Il superamento del quorum minimo di formazione obbligatoria potrebbe dare diritto ad un riconoscimento economico (secondo il modello contrattuale sperimentato anche a Trento).
La formazione dovrebbe svilupparsi all’interno dell’istituto o partecipando ad iniziative organizzate nel territorio, anche da associazioni riconosciute. La formazione è efficace se assume un carattere partecipato, di ricerca-azione, di rapporto con la didattica in classe e se favorisce la costruzione di comunità professionali (va contenuto l’esorbitare della formazione on line).
Per il sostegno della professionalità docente, in ogni provincia potrebbe essere attivato un centro risorse e servizi professionali per gli insegnanti, con compiti di supporto tecnico e professionale alle scuole e alle loro reti. L’attivazione delle nuove strutture non deve comportare l’incremento di personale, ma una sua diversa utilizzazione (ad esempio del corpo ispettivo, degli Irre, degli uffici studi), nell’ambito della riorganizzazione dell’amministrazione scolastica periferica (DPR 20 gennaio 2009, n. 17). Il modello prefigurato nell’ultimo decreto, su base regionale, sembra impoverire la possibilità di una interlocuzione dello Stato a livello provinciale, tra amministrazione, scuole, enti locali.[5]
Il sistema di valutazione dei docenti deve essere avviato solo a seguito di una sperimentazione diffusa nelle scuole, e di condivisione progressiva dei modelli valutativi. Il primo step potrebbe essere di carattere auto-valutativo. In tal senso si può incentivare la adozione di un portfolio professionale per ogni docente, per documentare il curriculum via via sviluppato[6]. Il portfolio –sulla base di quanto abbozzato dalla commissione tecnica paritetica MIUR-ARAN-OO.SS. – dà conto di crediti formativi (legati alla ricerca, alla didattica, alla formazione) e di crediti professionali (legati alle responsabilità organizzative assunte nella scuola). Le due tipologie di crediti assumerebbero (diverso) valore ai fini della assunzione di nuovi compiti a scuola o per lo sviluppo di carriera. Il sistema dei crediti sembra essere, al momento, un utile passaggio intermedio verso la valorizzazione della professionalità ed il riconoscimento del merito.

[1] Nell’indagine della Fondazione Agnelli, svolta in tre regioni italiane, il consenso per sistemi di valutazione degli insegnanti basati su standard professionali e procedure nazionali arriva al 41,2%, mentre la differenziazione in base agli impegni effettivi ed alle responsabilità organizzative trova rispettivamente il 67,8 ed il 62,9% di adesioni. Resta un 29,6 % di docenti (si tratta dei neo-assunti dell’a.s. 2007-2008) contrari a forme di differenziazione. (cfr. Fondazione Agnelli, op. cit.)
[2] “Le ragioni per cui, secondo noi, è preferibile una soluzione diversa [dalla retribuzione in base al merito dei singoli insegnanti] risiede nell’importanza dell’intero corpo docente e delle interazioni di classe (il cosiddetto peer effect) nel determinare i risultati scolastici, che trascende e in molti casi rende impossibile isolare il contributo del singolo insegnante”. V. Fondazione Giovanni Agnelli, Rapporto sulla scuola in Italia 2009, Laterza, Bari, 2009, pag. 264.
[3] Un documentato riepilogo dello stato della questione è contenuto in G.Cerini, E se cominciassimo dal portfolio per i docenti, in V.Bonmassar, IRASE T., Uil-Scuola, Sfidati dalla valutazione. Chi valuta che cosa?, Aracne, Roma, 2009.
[4] L’art. 2, comma 416 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 recita: “è definita la disciplina dei requisiti e delle modalità della formazione iniziale e dell’attività procedurale per il reclutamento del personale docente, attraverso concorsi ordinari, con cadenza biennale, nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente...”.
[5] La battuta, che ho raccolto da qualche autorevole dirigente scolastico secondo cui “si faceva più politica scolastica a livello provinciale quando c’erano i Provveditori”, sia di monito contro il rischio di un impoverimento della presenza dello Stato e dell’Amministrazione (cfr. art. 74, comma 3 del D.L. 112/2008, convertito in legge 133/2008, che prevede la riorganizzazione della rete periferica delle amministrazioni dello Stato su base regionale o in alternativa come strutture delle Prefetture, uffici territoriali del governo).
[6] Le associazioni professionali (ADI, AIMC, APS, CIDI, DIESSE, FNISM, MCE, UCIIM) firmatarie di uno specifico protocollo di intesa con l’Ufficio Scolastico Regionale per l’Emilia-Romagna, si sono poi impegnate in un’originale ricerca-azione su temi complessi quali i caratteri dell’identità docente, gli standard professionali, la valutazione e valorizzazione dell’insegnamento, il curriculum ed il portfolio come strumenti per favorire lo sviluppo professionale.
La ricerca ha cercato di offrire “visibilità” ad un curriculum possibilmente “virtuoso” del “bravo” docente, attraverso l’individuazione di uno strumento innovativo come il portfolio. Infatti, Il portfolio del docente può consentire di documentare e rendere espliciti gli eventi più significativi della biografia professionale (che è fatta di preparazione culturale iniziale, di attività di formazione in servizio, di partecipazione a ricerche, di assunzione di incarichi di responsabilità nella scuola, ecc.). Ma non solo: ciò che va “documentato” (e quindi fatto affiorare) deve essere soprattutto ciò che avviene in classe, la qualità della didattica e dell’insegnamento, con una diretta incidenza sui processi e sugli esiti di apprendimento dei ragazzi.
USR ER, Il portfolio degli insegnanti, Tecnodid, Napoli, 2005.

mercoledì 27 gennaio 2010

Per non dimenticare: le leggi razziali del 1938 (nella scuola)

Regio decreto legge n. 1390 del 5 settembre 1938 (pubblicato il 13 settembre 1938 sul n. 209 della Gazzetta ufficiale)

"Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola"

Visto l'art. 3, n.2, della legge 31 gennaio 1926-IV, n.100;
Ritenuta la necessità assoluta ed urgente di dettare disposizioni per la difesa della razza nella scuola italiana;
Udito il Consiglio dei Ministri;
Sulla proposta del Nostro Ministro Segretario di Stato per l'educazione nazionale, di concerto con quello per le finanze;

Abbiamo decretato e decretiamo:

Articolo 1.All'ufficio di insegnante nelle scuole statali o parastatali di qualsiasi ordine e grado e nelle scuole non governative, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere ammesse persone di razza ebraica, anche se siano state comprese in graduatorie di concorso anteriormente al presente decreto; né potranno essere ammesse all'assistentato universitario, né al conseguimento dell'abilitazione alla libera docenza.

Articolo 2.Alle scuole di qualsiasi ordine e grado, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica.

Articolo 3.A datare dal 16 ottobre 1938-XVI tutti gli insegnanti di razza ebraica che appartengano ai ruoli per le scuole di cui al precedente art. 1, saranno sospesi dal servizio; sono a tal fine equiparati al personale insegnante i presidi e direttori delle scuole anzidette, gli aiuti e assistenti universitari, il personale di vigilanza delle scuole elementari. Analogamente i liberi docenti di razza ebraica saranno sospesi dall'esercizio della libera docenza.

Articolo 4.I membri di razza ebraica delle Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere ed arti, cesseranno di far parte delle dette istituzioni a datare dal 16 ottobre 1938-XVI.

Articolo 5.In deroga al precedente art. 2 potranno in via transitoria essere ammessi a proseguire gli studi universitari studenti di razza ebraica, già iscritti a istituti di istruzione superiore nei passati anni accademici.

Articolo 6.Agli effetti del presente decreto-legge è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se egli professi religione diversa da quella ebraica.

Articolo 7.Il presente decreto-legge, che entrerà in vigore alla data della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del Regno, sarà presentato al Parlamento per la sua conversione in legge. Il Ministro per l'educazione nazionale è autorizzato a presentare il relativo disegno di legge.

Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserto nella raccolta delle leggi e dei decreti del Regno d'Italia, mandando a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.

Dato a San Rossore, addì 5 settembre 1938 - Anno XVI

Vittorio Emanuele, Mussolini, Bottai, Di Revel.

domenica 17 gennaio 2010

film: LA CLASSE DENTRO LE MURA

Centro per la pace "Annalena Tonelli", Comune di Forlì, Provincia di Forlì-Cesena, Regione Emilia-Romagna
In collaborazione col C.I.D.l.(Centro d'iniziativa Democratica degli Insegnanti)

Rassegna di film (Gennaio - Febbraio 2010)
Centro per la Pace Annalena TonelliVia Andrelini, 59 - 47121 Forlì



Martedì 19 gennaio 2010Ore 20,30

Proiezione del film
(Vincitore a Cannes 2008)
LA CLASSE DENTRO LE MURAdi Laurent Cantet

Francoise e i suoi colleghi insegnanti si preparano per un nuovo anno di liceo in un quartiere difficile. Armati delle migliori intenzioni, si impegnano a non permettere che nulla li scoraggi e gli impedisca di fornire la migliore istruzione impossibile ai loro studenti. Le diverse culture e i diversi atteggiamenti spesso entrano in conflitto tra loro all'interno della classe, come in un microcosmo sintesi della Francia contemporanea.

Introduce: Marisa Tronconi, Dirigente Scolastico Istituto Comprensivo FAENZA


Per il programma completo del ciclo di film, vedi:
http://cidi-forli.blogspot.com/2010/01/cinque-film-forli-per-capire.html

2010 Anno internazionale dell'avvicinamento delle culture
Siamo tutti nati per risplendere come fanno i bambini.E quando permettiamo alla nostra luce di illuminare,diamo agli altri la possibilità di fare lo stesso.E quando ci liberiamo dalle nostre paure,la nostra presenza libera gli altri.(Nelson Mandela)

Al termine degli incontri verrà rilasciato un attestato di frequenza.Seguirà buffet conviviale.Con il contributo della Regione Emilia-Romagna

Per informazioniCENTRO PER LA PACE ANNALENA TONELLIVia Andrelini 59 - 47121 Forlì Lunedì - Mercoledì - Venerdì ore 9,00 - 13,00Lunedì - Venerdì ore 15,00 - 19,00
Tel. 0543 20218 - E-mail: forli@centropace.it

venerdì 15 gennaio 2010

Chi ha paura del federalismo scolastico?
CIDI di Bologna.


Prospettive del federalismo scolastico:
rischio di secessione o voglia di autogoverno?

Autonomia scolastica, Regioni ed Enti locali, curricoli, personale: cosa cambierà nella scuola?



20 Gennaio 2010, ore 15- 18
Aula Magna Regione Emilia-Romagna
Via Aldo Moro, 30
Bologna

Ne discutiamo con:

Emanuele Barbieri : Il federalismo tra costi e virtù finanziarie. L'alternativa ai tagli nella scuola.

Anna Armone : Dal governement alla governance: nuove regole “orizzontali” per il sistema educativo.

Gabriele Ventura : C'era una volta il sistema formativo integrato: alle radici del federalismo pedagogico.

Giancarlo Cerini : Una road map sostenibile per un federalismo “solidale” nella scuola.

Giovanni Sedioli: C'è una via emiliano-romagnola al federalismo?

Presiede : Ivana Summa, Presidente del C.I.D.I. di BOLOGNA




Perché questo seminario?

Sono ormai passati più di otto anni dalla riforma del Titolo V della Costituzione italiana. Da allora, si sono succedute ulteriori modifiche del quadro normativo generale oltre a numerose sentenze della Corte Costituzionale che hanno reso tutta la materia per un verso più chiara e, per un altro, ne rivelano l'incompletezza e il complesso intreccio con problemi di natura politica ed istituzionale.
Tutto ciò ha, di fatto, determinato – per il governo del sistema scolastico del nostro paese – una situazione di stallo e di incertezza.
Il mondo della scuola fa fatica a comprendere come si va assestando il quadro di attribuzione di poteri e competenze a Stato e Regioni e, soprattutto, quali siano gli autentici spazi di autonomia delle istituzioni scolastiche. Chi fa che cosa? Come creare un nuovo equilibrio che migliori concretamente il servizio scolastico attraverso politiche del territorio mirate ad esigenze concrete ed aspettative legittime? E come ricomporre un quadro nazionale in grado di garantire a tutti i cittadini la fruizione di un diritto che, come quello all'istruzione, è tutelato da norme costituzionali?
Alla vigilia delle elezioni regionali riteniamo importante riprendere le fila del discorso sulle prospettive di governo del sistema scolastico della nostra regione, perché le istituzioni scolastiche dell'Emilia-Romagna vogliono partecipare da protagoniste a questo cambiamento le cui ragioni fondamentali restano quelle di migliorare la qualità dell'offerta formativa, garantendo inclusione, equità e opportunità per ciascun cittadino.





Il CIDI è soggetto qualificato per l'aggiornamento e la formazione del personale della scuola ed è inserito nell'elenco definitivo del MPI (decreto 05.07.2005, prot. 1217), ai sensi del D.M. 177/2000.
Il seminario si configura come attività di formazione e aggiornamento.
Su richiesta, verrà rilasciato un attestato di partecipazione.
Per informazioni chiamare il 3385218774, o inviare una mail a ivana.summa@cidi.it.

mercoledì 13 gennaio 2010

Scenari interculturali: la circolare n. 2 dell'8 gennaio 2010

Una circolare da leggere (almeno) due volte…

di Loretta Lega, già Assessore all’Istruzione del Comune di Forlì

Il peggior modo di leggere la circolare n. 2 dell’8-1-2010 (quella sul tetto del 30%…) è di farlo con gli occhi dell’emotività e della rabbia, rispetto a ciò che si vede nei centri di accoglienza, nei campi di calcio, nelle periferie devastate delle nostre città, nelle bidonville indegne del nostro Paese. Ma sarebbe un errore opporre ai rischi striscianti dell’intolleranza, di cui ha parlato B.Spinelli su “La Stampa”1, una sorta di buonismo di maniera, che rifiuta di misurarsi con l’esigenza di una progettualità concreta, di regole certe, di impegni operativi, per rendere effettivo i principi di una scuola inclusiva e di una istruzione di qualità per tutti.
E’ evidente che dietro la cm 2/2010 ci sono anche tensioni ed interessi politici, a volte di breve respiro, ma i problemi che la nota ministeriale pone sono reali e richiedono una riflessione approfondita da parte della scuola e dei suoi operatori, come pure della società intera.

Partire dai dati

Un ragionamento pacato, alla ricerca di soluzioni praticabili, deve partire da alcuni dati di fatto:
nelle scuole del nostro paese, la presenza di allievi di cittadinanza non italiana è aumentata nell’ultimo decennio in modo esponenziale, dal 2,2 % del 2001 al 6,4 % del 2010, avvicinando l’Italia alle medie degli altri paesi europei;
oggi la quota di non cittadini italiani nati in Italia (in Francia sarebbero cittadini a tutti gli effetti!) oscilla ormai attorno al 35%, e supera la maggioranza tra i bambini della scuola dell’infanzia (è del 41,1% nelle elementari), ponendo l’inedito problema identitario degli immigrati di seconda generazione;
esiste una fascia, che si aggira sull’8% dei ragazzi, di prima immigrazione, che spesso si presenta a scuola, con scarsissimi o inesistenti livelli di conoscenza della lingua e del nostro contesto culturale;
la scuola viene lasciata sola nell’affrontare questa nuova situazione: in poche province sono previsti insegnanti statali “aggiunti” per l’alfabetizzazione e la mediazione culturale; i fondi per l’aggiornamento scarseggiano; le ultime riforme riducono i tempi della scuola, della compresenza, della pluralità docente, cioè di molti elementi utili a costruire una scuola accogliente;
ci sono esperienze pregevoli di Enti locali, di cui si dà conto nell’utile documento che l’ANCI ha presentato il 2-12-20092 alla Camera dei Deputati, volte a costruire strutture di alfabetizzazione, protocolli per l’accoglienza, interventi di mediatori culturali, ma le restrizioni della finanza pubblica rendono difficile ampliare e diffondere tali “buone pratiche”;
le dinamiche dell’immigrazione (degli adulti) sono scarsamente governate, provocando fenomeni di addensamento in alcune aree del paese o dei territori o delle città: di fronte a questo dato il tema della quota del 30% nella scuola appare del tutto ininfluente, perché dovrebbe chiamare piuttosto in gioco le scelte pubbliche e private in materia di accessi al lavoro, residenzialità, urbanistica, ecc.
Vien da dire che la società civile sembra indignarsi di fronte alle situazioni che si determinano in alcune aree critiche del Paese, ma è assai avara nel predisporre le condizioni per una serena e civile convivenza. E’ più facile assecondare l’emotività e la paura, piuttosto che investire in soluzioni praticabili che hanno comunque dei costi. Se la presenza di stranieri è un fattore di ricchezza per un territorio (pensiamo a Reggio Emilia, una delle province con più alto tasso di reddito e, in parallelo, di incidenza di abitanti “non italiani”), una parte di quella ricchezza –pubblica e privata- dovrebbe rifluire verso la scuola ed i servizi sociali, per assicurare la tenuta del sistema e la sua coesione sociale. Dunque ha ragione il Presidente della Camera, on. Fini, quando cerca, inutilmente, di porre la questione della cittadinanza (da conferire a certe condizioni) come elemento di sviluppo civile del nostro paese, al di là di ogni tentazione xenofoba.

Il difficile compito della scuola

La scuola vive in questo contesto sociale di forti emozioni attorno al tema dell’immigrazione. Pensiamo alla controversa questione del reato di immigrazione clandestina, che sembra cozzare contro il diritto di asilo e di accoglienza, nella scuola certamente il diritto all’istruzione, come diritto inalienabile della condizione umana, senza restrizioni o subordinate. La scuola italiana riconferma, anche nelle situazioni più difficili, la sua vocazione inclusiva e all’accoglienza. Basta scorrere i dati che rivelano la complessità del fenomeno (191 le nazionalità presenti)3, che si presenta assai diffuso in certe aree del paese piuttosto che in altre, con addensamenti significativi in taluni contesti, con inaspettate presenze in piccoli centri ed in realtà apparentemente lontane dai grandi flussi migratori.
La scuola è in grado di accogliere e lo fa in base alle sue tradizioni e capacità. Ciò avviene senza particolari enfasi e difficoltà nella scuola dell’infanzia ed elementare, anche se al termine del ciclo, già si manifesta un forte dislivello nei rendimenti scolastici tra allievi italiani e non italiani. Quando l’apprendimento richiede l’uso di codici linguistici sempre più raffinati e strutturati emergono difficoltà e dislivelli nei risulti. Ad esempio, le prove Invalsi nelle elementari, la prova nazionale dell’esame di licenza media, le stesse prove Ocse-Pisa testimoniano un progressivo incremento del differenziale nei risultati4. Anche i dati ufficiali sulla “dispersione” (bocciature, ritardi, abbandoni) testimoniano queste difficoltà: a 7 anni già il 12,3% dei bambini stranieri è in ritardo, a 13 anni lo è il 63,7%.

I fattori di rischio

Di fronte a questa situazione è necessaria una seria riflessione. Non basta stigmatizzare – come fa la cm 2/2010- le classi troppo eterogenee come “fattore di rischio di parziale o totale insuccesso formativo per tutti” gli allievi di quella classe (uno scivolone pedagogico in una circolare costruita quasi sempre in punta di penna e con equilibrio). Una simile affermazione, presa alla lettera, porterebbe al superamento del principio dell’integrazione scolastica dei disabili (e allora, le belle “Linee guida” sull’handicap, appena firmate dal Ministro il 4 agosto 2009?)5, al ripristino di classi differenziali e speciali, nel migliore dei casi alla formazione di classi omogenee di livello, contravvenendo ad un assunto non solo italiano dello streaming, come efficace strategia per stimolare l’apprendimento in un ambiente educativo al contempo, cooperativo e competitivo.
Dovrebbe, invece, essere stigmatizzata la rigidità dei nostri modelli organizzativi, in cui la scacchiera degli orari settimanali delle discipline, l’organizzazione delle cattedre e degli orari dei docenti, la compattezza monolitica dei gruppi-classe, non lascia spazi a margini di flessibilità, di opzionalità, a percorsi individuali, ad interessi ed esigenze di approfondimento. Siamo ben lontani da quanto auspicato dai principi dell’autonomia didattica ed organizzativa, affermati nel regolamento sull’autonomia ben 10 anni fa (Dpr 8-3-1999, n. 275) e richiamati anche dalla circolare.
Una maggiore personalizzazione/individualizzazione dei percorsi potrebbe anche smontare l’ansia della classe di inserimento, per cui viene confermata in via ordinaria il criterio dell’età anagrafica. La cm 2/2010, comunque, suggerisce di sottoporre l’alunno in ingresso ad una prova di accertamento linguistico per stabilire la classe di iscrizione, come già previsto dalla normativa vigente6.

Il nodo della scuola superiore

La situazione dell’integrazione si aggrava nel passaggio dalla scuola di base alla scuola secondaria di secondo grado, sia in termini di rigidità degli impianti, ma soprattutto di stratificazione nelle scelte e negli orientamenti di studenti e famiglie. Risulta addirittura patetico ricordare il fatto che solo il 2 % degli studenti dei licei sono non italiani, mentre lo è quasi il 9 % dei professionali. Possono le scuole, da sole, invertire questa tendenza? Pura velleità, se non si mette mano ad una radicale riforma culturale della nostra scuola secondaria superiore (ove non basta il restyling dei nuovi regolamenti). L’unica proposta per evitare ghettizzazioni sarebbe quella di costruire poli scolastici (o campus), ben caratterizzati per l’asse di riferimento (scientifico, umanistico, sociale, tecnologico, linguistico, economico, ecc.), ma aperti ad una pluralità di utenze e di percorsi (liceali, disinteressati, ma anche professionalizzanti, brevi, di alta formazione, di educazione permanente, ecc.) in cui intrecciare presenze sociali e provenienze: un problema di democrazia e di equità per gli italiani, prima ancora che per gli stranieri7. La circolare si limitata ad ipotizzare “moduli di apprendimento e percorsi formativi differenziati”.

Le proposte operative della circolare

Certamente, un eccessivo addensamento di allievi non italofoni all’interno di una singola classe può rendere più difficile una efficace integrazione. Su questo specifico aspetto, ma non solo, si dirige l’attenzione della CM 2/2010. Le ipotesi suggerite dalla circolare, secondo alcuni in modo eccessivamente intrusivo rispetto all’autonomia delle scuole (ma processi così delicati vanno “governati”), non sembrano di facile applicazione, ed il testo stesso della nota lo riconosce, proponendo una serie di deroghe, eccezioni, distinguo, non sempre facili da interpretare e da calare nei contesti operativi. La competenza, per le deroghe e gli adattamenti ai tetti, è comunque demandata al Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale.

I “non” cittadini

Partiamo dalla fatidica quota del 30% e dal suo conteggio (posto che questa sia una soglia che abbia un suo significato)8. Chi sono gli allievi con cittadinanza italiana? –si chiede, con toni ironici l’Associazione Docenti Italiani, che ha prodotto una ricca documentazione in merito9. Certo esistono le leggi italiane sulla cittadinanza, che fanno riferimento al diritto di sangue piuttosto che a quello del suolo, ma ci sono proposte di legge in discussione volte a riformulare questo concetto, a renderlo più aperto alle istanze di una società multietnica, accompagnandolo –ad esempio- all’acquisizione di un grado di padronanza della lingua e dei riferimenti giuridici e costituzionali che fondano la nostra convivenza civile: una sorta di patriottismo “costituzionale” (Habermas), dove lo stare insieme è dovuto proprio alla condivisione delle leggi fondamentali piuttosto che alla appartenenza etnica. La mancanza del requisito della cittadinanza, un concetto oggi mutevole ed in evoluzione, sembra configurare una condizione di minorità che, tra l’altro, sarebbe soggetta a condizioni aleatorie (il ritrovarsi o meno in un territorio ad alta o bassa densità di immigrati). Tra l’altro, l’istruzione potrebbe invece agevolare un percorso verso la cittadinanza, ma il paradosso è quello di porre condizioni ai non cittadini per la loro istruzione, facendola dipendere dai contesti territoriali (a bassa o alta densità di immigrati).10

La coercizione negli spostamenti

Ammettiamo che in un plesso o in un istituto si determini il superamento della soglia del 30%. Come individuare i “perdenti posto”? Come costringerli ad uno spostamento lontano magari dalla propria abitazione? Con quali motivazioni farlo, per non dare l’impressione di una scelta coatta? Non ignoriamo che negli Stati Uniti per combattere la segregazione razziale si adottò negli anni ’60 il cosiddetto “forced busing” per riequilibrare la composizione etnica di determinati plessi, se si vuole, in una ottica anti-segregazionista. Ma da noi? Giustamente la c.m. 2/2010 imposta il problema non in termini di obbligo per i genitori allo spostamento, ma come dovere delle istituzioni di organizzare un servizio educativo in cui ci sia un equilibrio di presenze in classe (una volta le avremmo definito classi “equieterogenee”). Comunque, solo il 5% delle scuole supera la soglia del 30% di presenza di non italofoni.

La concertazione territoriale

Giustamente la circolare insiste sul coinvolgimento del territorio (a partire dagli Enti locali competenti: Comune e Provincia, ma anche delle associazioni no-profit e del volontariato) nel promuovere programmi di più vasto respiro (coordinamento territoriale delle iscrizioni, servizi di alfabetizzazione in rete, mediazione interculturale, ecc.), in grado di evitare l’acutizzarsi di situazioni critiche solo in alcune realtà. Sappiamo bene come spesso l’autonomia delle scuole si sia a volte tramutata in una sorta di autarchia competitiva, in cui ogni scuola tende a chiudersi e a gestirsi in proprio problemi e risorse (e la presenza di allievi stranieri può essere vista di volta in volta come una minaccia da evitare o come una inaspettata risorsa per la sopravvivenza di una scuola). In altre stagioni fu possibile attivare organismi di pilotaggio interistituzionale, dentro e fuori la scuola, come nel caso dell’handicap, occorre promuovere un analogo sforzo per l’integrazione interculturale. La circolare indica alcuni organismi di governance da istituire ai diversi livelli (nella scuola, nel territorio, in regione, nazionale)

La soglia di competenza linguistica

Uno dei motivi di deroga dal tetto del 30% è costituito dalla padronanza della lingua da parte degli studenti immigrati (a maggior ragione se questi sono nati in Italia ed hanno alle spalle già un percorso di scolarizzazione, nel nido, nella materna, nella scuola elementare). Ma come si accerta un livello di competenza linguistica? E qual è una soglia accettabile, che sia interpretata come una prima base di partenza da incrementare ulteriormente grazie ai processi di scolarizzazione? Esistono standard internazionali di competenza legati al quadro europeo delle lingue, quindi anche per l’italiano come seconda lingua. Sono disponibili strumenti e prove di accertamento di tali livelli, come quelli prodotti dalla Università per stranieri di Perugia. Tuttavia, l’acquisizione di una lingua diversa da quella materna non è un semplice problema tecnico, di acquisizione fredda di un nuovo codice, ma si lega a fattori culturali, psicologici, emotivi, sociali.

Italiano lingua due o interlingua?

Nell’apprendente una nuova lingua si crea uno spazio di connessione tra lingua già posseduta e nuova lingua (chiamato interlingua dagli studiosi), assai dinamico e ricco dal punto di vista cognitivo (se si lavora con intelligenza su di esso), che non può essere misurato solo in termini di quantità di errori e di progressiva correttezza del nuovo codice appreso. Parlare di interlingua significa valorizzare le prime competenze degli apprendenti11. Inoltre, come precisa la cm 2/2010, un conto è la lingua italiana utilizzata per i normali scambi della vita di relazione –che può essere incrementata attraverso un tessuto scolastico ricco di opportunità di scambio -, un conto è la lingua italiana da utilizzare per studiare e per inoltrarsi all’interno di specifici saperi disciplinari. L’italiano L2 per studio richiede un tirocinio e tecniche particolari (e un presidio linguistico più forte all’interno delle nostre scuole). Ritorna, nuovamente, il problema generale dello “stato” dell’insegnamento delle lingue all’interno dei nostri curricoli. Una società plurilingue come è ormai la nostra, che si riflette nella presenza di classi plurilingue, richiede un più consistente investimento sulla formazione dei docenti e sul rinnovamento di metodi e ambienti di apprendimento.

L’organizzazione didattica

Non esistono modelli vincenti per l’integrazione interculturale nella scuola. Ogni paese ha sviluppato proprie strategie culturali ed organizzative in merito all’integrazione scolastica degli immigrati, coerenti con le scelte più generali sulla politica dell’immigrazione: dal multiculturalismo tipico della Gran Bretagna alle politiche di assimiliazione della Francia. Per il nostro paese si è parlato spesso di una “via italiana all’integrazione”12, per segnalare la propensione inclusiva della nostra scuola, specie di quella di base e di come attorno alle scuole accoglienti sia possibile sviluppare inedite forme di dialogo, incontro, confronto tra culture, capaci di coinvolgere anche gli adulti. Sarebbe deleterio interrompere questo processo. Tuttavia, mantenere la “via italiana” richiede progetti, risorse, concretezza di lavoro, come ben segnala il documento emanato nel 2007 dal Ministero dell’istruzione. Il problema non è aggirabile solo immaginando classi ponte, dove realizzare una sorta di alfabetizzazione “forzata” o di decontaminazione culturale (vengono in mente gli immigrati italiani “in quarantena” sulle banchine di Ellis Island, all’inizio del ‘900).
Ogni singola scuola, le scuole in rete, il territorio, devono poter offrire una pluralità di opportunità e metodologie, che possono andare dai corsi intensivi, prima e a fianco della scuola, al potenziamento dell’offerta di lingua italiana nei currricoli (cui si fa cenno nel regolamento del primo ciclo, il Dpr 89/2009), alla facilitazione negli strumenti e nei sussidi. La cm 2/2010 contiene un’esauriente rassegna di tali possibilità, il problema semmai è tradurle in linee di lavoro praticabili.

Ad impossibilia, nemo tenetur (nessuno è tenuto a fare l’impossibile)

Dopo l’impatto duro che la circolare ha avuto al suo primo apparire, oggi il clima sembra più sereno, anche per le precisazioni che sono giunte dallo stesso Ministro, con una interpretazione più aperta delle misure prospettate. Ad esempio, con una attenzione particolare agli allievi non italiani nati però in Italia, con la considerazione del livello di conoscenza della lingua italiana. Con realismo, la circolare ammette che in certe situazioni sarà impossibile dare attuazione al principio del tetto massimo, come nel caso di piccoli comuni, ad alta intensità immigratoria, con poche istituzioni scolastiche, o di quartieri di grandi città in analoghe situazioni, ad istituzioni “in continuità” (una elementare con una media dirimpettaia…), ecc. In questi ed in altri casi diventa improbabile promuovere spostamenti radicali di utenza, ai quali occorrerebbe garantire comunque agevolazioni costose ed un servizio educativo di qualità.
Ma allora torniamo al punto di partenza ed alle scelte complessive che si intendono fare sulle
politiche dell’immigrazione, sul futuro della scuola e quindi della nostra società.

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1 B.Spinelli, Se questi sono uomini, in “La Stampa”, 10 gennaio 2010.
2 Il dossier dell’ANCI è rintracciabile sul sito di “Notizie della Scuola”: http://www.notiziedellascuola.it/news/anci-alla-camera-rilanciare-un-piano-nazionale-di-integrazione-anche-per-alunni-stranieri-nelle-scuole
3 Le nazionalità più rappresentate sono, nell’ordine: Romania, Albania, Marocco, Cina, Ecuador, Tunisia, Filippine.
4 Nelle prove di lettura, il dato medio dei quindicenni italiani è di 473 punti, quello degli stranieri di 415. Per una analisi di dettaglio, cfr. D.Mantovani, Gli studenti stranieri sui banchi di scuola in Emilia-Romagna, in G.Gasperoni (a cura di), Le competenze degli studenti in Emilia-Romagna. I risultati di Pisa 2006, Il Mulino, Bologna, 2008.
5 L.Lega, Linee guida sull’integrazione degli alunni con disabilità, in “Notizie della scuola”, n. 1, 1-15 settembre 2009, Tecnodid, Napoli.
6 Dpr 31-8-1999, n. 394 (Regolamento di attuazione delle norme in materia di immigrazione).
7 D.Chiesa, L’improbabile riforma delle superiori, in “Rivista dell’istruzione”, n. 5, ottobre-novembre 2009, Maggioli, Rimini.
8 Nel Dpr 394/1999 cit. si suggeriva di non costituire classi in cui la presenza di alunni non italiani fosse preponderante (maggioritaria?).
9 Il dossier dell’ADI è reperibile all’indirizzo: http://www.adiscuola.it/adiw_brevi/?p=2486
10 Fa molto discutere il Disegno di legge n. 103-A che introduce modifiche alla legge vigente (la n. 91 del 5 febbraio 1992), perché collega l’acquisizione della cittadinanza degli stranieri nati in Italia alla residenza continuativa fino alla maggiore età ed alla frequenza con profitto della scuola fino all’assolvimento dell’obbligo di istruzione e formazione (oltre ad un corso di storia, cultura e cittadinanza e Costituzione).
11 In Emilia-Romagna è stato predisposto un ampio programma di formazione dei docenti sul tema dell’interlingua. Ne parla G.Cerini sul sito “edscuola”. Cfr. http://www.edscuola.it/archivio/riformeonline/intercultura.htm
12 Il testo del documento, elaborato dall’Osservatorio nazionale per l’integrazione nel 2007, è reperibile sul sito del MIUR: cfr. http://www.pubblica.istruzione.it/news/2007/allegati/pubblicazione_intercultura.pdf