lunedì 26 dicembre 2011

Si chiamava diritto allo studio (a 3 anni)



Si chiamava diritto allo studio (a 3 anni)

di Giancarlo Cerini

Una storia prestigiosa

Che succede alle scuole considerate il nostro gioiello di famiglia? Ci riferiamo alle scuole dell’infanzia italiane, giudicate non a torto, tra le migliori al mondo. I tassi di frequenza sono (erano?) tra i più alti in Europa: oltre il 97% dei bambini dai 3 ai 5 anni risulta iscritto, mentre l’Europa si pone ancora l’obiettivo del 95% al 2020. I livelli di qualità sono certamente differenziati (questo è il cruccio vero del sistema educativo del nostro paese), ma in genere con uno standard elevato, nonostante (o forse proprio perché) il settore prescolastico sia storicamente articolato in scuole statali, comunali, private paritarie. La sua presenza è assai capillare, conta su una rete di oltre 24.000 (micro)strutture scolastiche, una vera scuola di “prossimità”, molto vicina alle comunità di riferimento. Gode di programmi didattici avanzati (gli Orientamenti del 1991 fanno ancora testo) e di un corpo insegnante motivato verso il proprio lavoro, disponibile a rimettersi in gioco e a curare il proprio aggiornamento. E’ vero, la ferita dell’anticipo a 5 anni non è stata ancora rimarginata (perché metteva in crisi un progetto triennale apprezzato), mentre i pasticci sul fronte dell’anticipo a 2 anni non hanno consentito di far decollare, come auspicato, l’esperienza delle sezioni primavera (per i bambini dai 2 ai 3 anni), come servizio complementare all’asilo nido e alternativo all’anticipo .

Le cattive notizie

Di qui, a partire dalla persistente immagine positiva, cominciano le cattive notizie:
- certi Comuni non riescono più a sostituire nelle loro scuole dell’infanzia il personale di ruolo che va in pensione, tanto che in alcune prestigiose realtà comunali il 50% del personale è supplente! Sembra incredibile!
- in alcune scuole statali del sud, ci sono mamme che vanno a ritirare i bambini all’ora della mensa, perché non possono permettersi di pagare la retta ;
- in tante realtà sono tornate a fiorire le liste d’attesa, un fenomeno che era stato superato almeno da vent’anni, grazie anche all’intervento programmato e progressivo dello Stato nel mettere a disposizione i posti necessari per l’espansione del servizio;
- in altri comuni (anche questi prestigiosi) si stanno ormai esternalizzando parti del curricolo, non meramente integrative (lo capiremmo…), ma essenziali come il pomeriggio (non il prolungamento del tardo pomeriggio) o le attività di sostegno;
- a volte lo Stato apre una nuova sezione, ma assegna un solo docente (quando il modello ad ordinamento –Dpr 89/2009- nel 91% dei casi prevede un orario a tempo lungo, con il doppio organico), costringendo Regioni, Enti locali, genitori a doppi e tripli salti mortali per assumere una qualche figura avventizia per assicurare un minimo di durata del servizio;
- le risorse pubbliche per le sezioni primavera stanno diminuendo, i tempi ed i ritardi burocratici negli indispensabili accordi rendono difficoltosa la prosecuzione di una esperienza promettente.
Sul piano finanziario, i costi richiesti per frequentare una scuola dell’infanzia (comunale, statale, o privata) stanno salendo incredibilmente, perché mensa, servizi di scodella mento (!?), prescuola, ed altre “accise” portano spesso la quota mensile di frequenza anche verso i 200-300 euro mensili, facendo tornare l’iscrizione alla materna un onere “individuale” per le famiglie, piuttosto che una struttura educativa per tutti. Ve lo immaginate se la famiglia benestante che manda al liceo statale il proprio figliolo si sentisse richiedere una retta annuale di 2-3.000 euro (quando oggi c’è chi mette in mora il preside perché ha osato chiedere un contributo di 150 euro annue, assicurazione compresa?).

Riscoprire un diritto civile

Insomma, qualcosa non va nella nostra civilissima Italia. Se quello che fin dagli anni ’70 veniva considerato un diritto (“il diritto allo studio comincia a tre anni” titolava un volumetto di battaglia pubblicato a quel tempo dagli Editori Riuniti, ad opera del volitivo assessore comunale Liliano Famigli), ma se quel diritto universale oggi è rubricato ad un mero servizio a domanda individuale, subendone tutte le conseguenze sul piano tariffario e del contributo chiesto ai genitori, l’educazione della prima infanzia sta correndo serissimi problemi, nelle aree forti e deboli del nostro paese, nel sistema pubblico e nel sistema privato (anche lì, le risorse sono state congelate), in controtendenza rispetto alle stesse indicazioni europee.
Che ne sarà del motto “Starting strong” (“partire alla grande”) che stava scritto nel Rapporto Ocse sulla scuola dei piccoli , che pure premiava il modello italiano? Come onorare l’indicatore (Indagine Pisa 2009) che mette in correlazione la frequenza della scuola dell’infanzia con un migliore successo negli apprendimenti a 15 anni? Come promuovere un rafforzamento della formazione nella scuola di base (oggi rilanciata dall’idea di generalizzare gli istituti comprensivi ), che richiede di dare piena dignità e vigore al primo incontro con i saperi, dai 3 ai 5 anni? Come superare il dislivello di offerta che si manifesta tra i comparti 0-3 anni (gli asili nido, fermi al 15%) e 3-5 anni (le scuole dell’infanzia, ormai al 97% ma con le criticità che abbiamo visto)? Come essere coerenti con le tradizioni, vecchie e nuove, della ricerca pedagogica italiana sull’infanzia, fatta di illustri accademici ma anche di tante “esperienze” innovative promosse sul campo?
Sono interrogativi ineludibili, che richiedono risposte di ordine politico, tecnico-amministrativo, legislativo, professionale.

Comune e “terzo” settore

Intanto sembra urgente un provvedimento di legge che sfili il settore delle scuole dell’infanzia comunali dai vincoli capestro che condizionano i Comuni (mancata sostituzione dei pensionamenti, tetti di spesa per le supplenze, mancato reclutamento di nuovi docenti, interventi per il sostegno, ecc.) adottando le stesse regole vigenti nel parallelo settore statale. Qui è a rischio la stessa sopravvivenza della terza filiera (quella comunale) del settore infanzia, che tanto ha dato all’intero sistema educativo italiano. Già si sentono assessori affermare che la gestione delle scuole comunali non rientra tra le priorità dell’ente locale, che è una situazione del tutto residuale, che ben venga una bella “statizzazione”, così finirebbero l’incertezza ed i problemi di bilancio. Ma in questo modo si priverebbe il sistema di una linfa vitale (posto che si recuperino le criticità di oggi). Servono decisioni rapide, come hanno segnalato le neo-assessore all’infanzia dei Comuni di Napoli, Milano, Torino e Bologna .
Per lo stesso motivo si dia garanzia di contributi pubblici al settore privato (quelli statali previsti da leggi, quelli regionali e comunali previsti da convenzioni), ma si dica chiaramente che il privato che riceve finanziamenti pubblici deve rispettare i criteri propri di una scuola che ambisce svolgere una funzione pubblica. Non sempre si accolgono utenti a prescindere da condizioni sociali, etniche, religiose (economiche…); non sempre si coordinano le iscrizioni, dando vita a concorrenza impropria (ad esempio, tutti dovrebbero farsi carico della presenza di bimbi stranieri); il sistema dei controlli è troppo evanescente. La scuola privata vorrebbe il riconoscimento automatico di “pubblica”, ma le nostre leggi (la 62/2000 di berlingueriana memoria, detta di “parità”) pongono regole che vanno rispettate (che dire degli allievi fuori età? dei contratti di lavoro dei docenti? dei programmi didattici?). La sussidiarietà non significa che lo Stato e gli Enti pubblici abbandonano il loro dovere di dare indirizzi, standard, garanzie, a piccoli e grandi.

Gli impegni dello Stato

Ma intanto lo Stato deve prendersi cura delle sue scuole: sono ben 13.553 scuola (56% del comparto), 993.226 bambini (59,1% dei bambini), 81.197 insegnanti di ruolo, il settore maggioritario del comparto, cresciuto in poco più di 40 anni (dalla mitica legge 444 del 18-3-1968, quella che fece cadere diversi Governi). Andare a scuola a tre anni costituisce in quasi tutte le Regioni il primo impatto di genitori e allievi con una istituzione pubblica, che rappresenta una garanzia di uguaglianza di opportunità, di incontro con la lingua e la cultura del nostro paese (in un ambiente sempre più plurilingue). E’ un tassello fondamentale della cittadinanza, che va difeso con più ostinazione di quanto facciano le leggi. Spesso, con l’alibi che la scuola dell’infanzia non è obbligatoria, si deve registrare il disimpegno delle istituzioni, non si provvede di fronte a domande effettive di scolarizzazione, il servizio non viene garantito nella sua universalità. Riteniamo che la scuola dai 3 ai 5 anni possa continuare a non essere obbligatoria, per non omologarla o “anticiparla” rispetto a compiti formativi che sono successivi, ma che il suo “status” giuridico debba essere quello di una istituzione educativa da garantire con certezza.
Oggi c’è una richiesta pressante di servizi educativi, ma bisogna seguire meglio le dinamiche demografiche e le nuove zone di insediamento, facendo fronte alle aree di criticità (detto in altre parole: occorre predisporre uno stock di sezioni aggiuntive e di insegnanti ogni anno, per rispondere alle richieste inevase). Occorre rilanciare la formazione e la ricerca didattica tra il personale (e l’approccio al monitoraggio delle Indicazioni è una risposta tardiva e al momento insufficiente) , soprattutto per trasmettere sapere e passione ai nuovi insegnanti, valorizzando le competenze di quegli insegnanti magari vicini alla (o già in) pensione, che hanno dato molto in questa direzione.
Sezioni ed insegnanti non sono le uniche condizioni che fanno qualità. Pensiamo al personale ausiliario (questione che non si può liquidare con l’infelice battuta che non servono i carabinieri a scuola) perché l’assistenza educativa a 3 anni significa autonomia, corpo, sicurezza, benessere, identità. Pensiamo ai cosiddetti “servizi” (il trasporto, la mensa, ecc.) perchè non sono un optional e “fanno qualità” e quindi le quote di partecipazione finanziaria degli utenti devono essere calmierate e rese sostenibili.

Una “survey” per la “materna”

Sono dunque molti i punti di attenzione che dovremo riservare a questo delicato ma decisivo segmento del nostro sistema educativo, non solo per mantenere e confermare le nostre buone posizioni, ma per rilanciare l’idea di una scuola dell’infanzia di qualità, plurale nella sua gestione, ma accomunata nella ricerca di standard educativi di elevato spessore.
Si ricostituisca al centro un nucleo pensante, un osservatorio (che potrà essere posizionato al MIUR, ma che dovrebbe aprirsi ad una logica inter-ministeriale e inter-istituzionale), che veda le diverse azioni che si possono “cantierare” per salvaguardare la qualità (e la quantità) delle nostre scuole dell’infanzia. Serve una “survey” sul sistema educativo 3-5 anni che aiuti a capire meglio quali sono le condizioni che possono favorire il persistere della buona scuola dell’infanzia italiana.